In questa prefazione al libro di Elena Basile, L’Occidente e il nemico permanente, Luciano Canfora elogia l’opera per la sua capacità di illuminare complessi intrecci storici e diplomatico-militari dell’ultimo trentennio, grazie alla profonda conoscenza dell’autrice. Canfora traccia una linea che va dal suicidio dell’Europa, causato dalla Prima Guerra Mondiale e dalla decisione dell’impero britannico di fermare l’ascesa della Germania, fino alla nascita e all’evoluzione della rivalità tra l’Occidente e il comunismo. Questo conflitto ideologico si è trasformato nel tempo, con la Guerra Fredda e la sua propaganda, fino ad arrivare ai cambiamenti geopolitici post-Guerra Fredda, dove la democrazia, l’ascesa della Cina, e i nuovi equilibri di potere pongono sfide complesse. Canfora evidenzia come, nonostante i cambiamenti, l’Occidente abbia mantenuto l’abitudine di cercare di egemonizzare il mondo, spesso sotto il pretesto di una missione moralistica, sottolineando la persistenza di una propaganda che maschera interessi meno nobili, in una critica che attraversa la storia fino ai giorni nostri.
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Questo libro di Elena Basile, che scaturisce dalla approfondita conoscenza che l’autrice ha della storia diplomatico-militare dell’ultimo trentennio, risulta, proprio per tale suo fondamento, illuminante. Illuminante, beninteso, per chi cerchi di «sapere qualcosa di preciso», per usare una espressione semplice e limpida che si trova in un proemio compreso nell’opera tucididea.
La ricchezza dei dati e il disvelamento delle connessioni e degli intrecci supportano ampiamente, a mio giudizio, la tesi espressa sinteticamente nel titolo del volume. Nel solco di tali indagini, si possono prospettare ulteriori scenari. Il che deve qui farsi brevemente e in iscorcio.
All’origine della più che secolare vicenda che abbiamo alle spalle vi è il suicidio dell’Europa. Suicidio determinato dalla scelta dell’impero britannico di fermare con la guerra la crescita prorompente e l’allarmante rivalità del ben più giovane impero tedesco. Tale fu la genesi della Grande Guerra (1914-1918). Al termine della quale il bastone di comando passò dal malconcio impero britannico al ben più moderno impero degli Stati Uniti d’America. Certo, non si denominava “impero”, ma aveva tutte le caratteristiche e disponeva delle necessarie premesse per esserlo.
Ma la guerra suicida aveva anche fatto sorgere il nuovo “nemico assoluto”: il comunismo. Non più “spettro” letterario ma dura formazione politico-statale non disposta a farsi soverchiare. Fino al 1918 il “nemico” dell’Occidente era la Germania, per sconfiggere la quale l’Inghilterra aveva saputo coinvolgere prima la Russia poi gli Stati Uniti. Ora il “nemico assoluto” era ancora più a Oriente, sulla carta geografica. Anche per questo era un “nemico” perfetto. Un nemico rispetto al quale l’“Occidente” tutto poté dispiegare, dando a credere di investirsi di una sorta di moderna “crociata”, tanto la forza quanto la propaganda: ora alternandole, ora coniugandole. Ragion per cui davvero il 1941-1945 costituì una anomalia, dalla quale – scampato il pericolo – furono prese quanto più rapidamente possibile, e con adeguata profusione di oratoria fremente, definitive distanze. Sappiamo chi ha vinto.
Le cose divennero un po’ meno agevoli quando l’“usato sicuro” (“mondo libero” versus “impero del male”, “chiesa del silenzio” etc. etc.) risultò non più calzante. E anzi, per un breve tratto, parve addirittura opportuno, o comunque utile, plaudere alla democrazia ritrovata grazie nientemeno che a Corvo Bianco. E i cultori meno avveduti della “filosofia della storia”, della storia proclamarono, allora, addirittura la conclusione: culminante appunto nella imminente vittoria universale della democrazia (cioè dell’“Occidente”).
Ma non durò. Quando l’Europa, raccolta sotto le insegne di una Unione a trazione tedesca cresciuta di dimensioni geografiche ed essenzialmente economico-finanziarie, cominciò a scoprire che l’ex “impero del male” era un partner interessante e foriero di reciproci vantaggi, il Grande Fratello dovette correre ai ripari. Il che poteva, consentendogli il Patto Atlantico (anch’esso in crescita vertiginosa) di affermare se stesso nel resto del mondo e, al tempo stesso, tenere per mano l’Europa.
In breve fu aggiornato il lessico: non più l’“impero del male” ma la “democratura” fu il “nemico”. Adattata all’incessante flusso degli eventi, l’antica litania poté ricominciare, con ritocchi stilistici e sommovimenti “arancione”. (Altrove provvedevano le primavere arabe, ma anche, se del caso, la distruzione dell’Iraq o il bombardamento sulla Serbia).
Il “nemico” era da capo lì: «Il bieco storione del Volga», come si espresse un dì un giornalista emotivo nelle focose polemiche degli anni Cinquanta.
Ma nascevano anche nuovi imbarazzi. Che fare della Cina? In assenza di un altro Kissinger che riuscisse daccapo a metterla contro la Russia. Era un problema. Per le api operose che costruiscono l’opinione pubblica nel “mondo libero” si apriva un dilemma non da poco: bisogna scrivere che va a rotoli o invece che è ormai pericolosa perché troppo forte? Bisogna demonizzarla e smascherarla perché non più comunista ma iper-capitalistica, o è meglio ripiegare sul classico e ribadire che incarna più che mai il mostro comunista? Questa seconda opzione è stata da ultimo abbracciata da un astro nascente della “democrazia occidentale”, il neopresidente argentino Milei: il quale ha fatto sapere, per la gioia del democratico Biden, che si ritira dal gruppo Brics perché si sente incompatibile coi “comunisti” (cioè la Cina appunto).
Viene a mente un vecchio, efficace, scritto giornalistico di Benedetto Croce, apparso nel periodico «La città libera» del 14 settembre 1945: Durezza della politica. Lì Croce prendeva spunto dalla sorpresa di alcuni di fronte al fatto che, sconfitto ormai l’Asse, il nuovo governo inglese, non più conservatore ma laburista, accantonasse, pur sollecitato, ogni ipotesi di buttar giù Francisco Franco, a suo tempo sorretto dall’Asse e agevolato dai conservatori inglesi. Ormai – rilevava – i laburisti, giunti al governo, se la cavano con l’argomento «Ogni popolo è padrone di darsi il governo che vuole». Con lucida freddezza Croce osservava: in politica, le parole che ammantano l’azione (in particolar modo nel campo della politica estera) non hanno, né pretendono di avere, un contenuto di verità. «Se gli interessi inglesi», soggiungeva, «entreranno in conflitto con quelli spagnoli, si assisterà a una rapida mutazione di stile, e la crociata sarà bandita in nome della morale». Vera vocabula rerum amisimus lamentava lo storico latino Sallustio.
Così, l’“Occidente” non ha mai perso il vezzo di voler fare la lezione al mondo, nel mentre che ha come obiettivo primario di egemonizzarlo, convogliando intorno a sé satelliti contro il “nemico”: con ogni mezzo, dall’assassinio mirato al predicozzo.
Lo fa dire Le Carré a Smiley: «A volte penso che la cosa più volgare della guerra fredda sia stata il modo in cui imparammo a trangugiare la nostra propaganda. Naturalmente abbiamo fatto lo stesso in tutta la nostra storia. Nella nostra presunta rettitudine ideologica perfezionammo l’arte della menzogna pubblica. Ci facemmo nemici riformatori rispettabili e amici i sovrani più disgustosi» (The Secret Pilgrim, 1990, trad. it. Il visitatore segreto, Oscar Mondadori, 2001, capitolo 6). Valutazione complessiva, che trova un puntuale riscontro documentario nel recente studio di Vincent Bevins The Jakarta Method (2020, trad. it. Il metodo Giacarta, Einaudi, 2021).
Elena Basile, L’Occidente e il nemico permanente, PaperFIRST 2024