Un intellettuale scomodo, solitario che polemizzò con Mussolini e fu con Pannunzio al «Mondo», denunciando eccessi di comunismo e fascismo.
Il volume uscito, inosservato, nel ’69, sparava sul sistema: è governato da élite demagogiche e corrotte pronte ad assecondare le masse per il potere.
di Sergio Romano
Mafia e mafioso sono tra le parole più inflazionate del gergo politico-sociale e uno dei maggiori contributi della lingua italiana al lessico internazionale. Esistono ormai la mafia colombiana, la mafia cinese, la mafia albanese, la mafia cecena e le mafie russe. Esistono le mafie professionali: dei medici, degli avvocati, dei giornalisti, dei sindacalisti, dei professori universitari. La parola ha cacciato dal dizionario o fortemente diminuito l’uso di quasi tutte le espressioni con cui una volta veniva descritto un gruppo di persone che persegue segretamente obiettivi inconfessabili: sodalizio, consorteria, banda, gang, massoneria, camorra, cartello, clan.
Negli Anni Sessanta le due parole avevano un uso più specifico e circoscritto. Allora di mafia ce n’era soltanto una e mafioso era l’uomo che era stato ammesso o farne parte con un giuramento iniziatico. Ma nel 1969 apparve in Italia presso Volpe (una casa editrice di destra fondata dal figlio dello storico Gioacchino Volpe), un piccolo libro di Panfilo Gentile intitolato Democrazie mafiose.
A quali democrazie si moriva l’autore? A quelle in cui una banda di criminali ha preso il potere e lo esercita per fini criminali? A quelle società di ladri e mendicanti che suggerirono a John Gay la Beggar’ Opera e a Bertolt Brecht l’Opera da tre soldi? No. Gentile scrisse il suo piccolo trattato per dimostrare che tutte le democrazie, più o meno, sono necessariamente mafiose perché tutte sono governate da élites demagogiche che assecondano gli umori delle masse per conservare il potere e per spremerne ogni possibile vantaggio.
Scritto e pubblicato negli anni della contestazione studentesca, a cui l’autore dedicò un capitolo feroce, il libro sembrò a molti lo sfogo di un vecchio bilioso, reazionario, misoneista, deciso a scaricare sulla società, a un passo dalla tomba, tutto il fiele della sua lunga esistenza terrena.
L’impressione sembrava confermata da alcuni tratti fisici e caratteriali dell’autore. Panfilo Gentile era nato all’Aquila nel 1889 e aveva quindi, al momento della pubblicazione del libro, ottant’anni. Persino i suoi amici, per descriverlo, parlavano della sua «non comune bruttezza». Viveva a Roma, nei pressi di via Veneto, ma conduceva la vita appartata e scontrosa di un misantropo. D’inverno spegneva la luce alle otto e mezzo di sera, d’estate alle nove. Ebbe un grande amico, Mario Missiroli, ma lo frequentò quasi esclusivamente per telefono o corrispondenza perché il direttore del Messaggero e del Corriere della Sera si coricava all’alba e lui, Gentile, al tramonto.
Un giornalista che lo intervistò per Il Borghese nel 1969, Gianfranco de Turris, lo scovò «fra un numero incredibile di cani e di gatti, di libri, di giornali, di ritratti di uomini famosi», fra cui Croce, D’Annunzio, Missiroli e Gioacchino Volpe. Un intellettuale della nuova destra, Marcello Veneziani, scrisse qualche anno fa che i suoi visitatori lo trovavano «invariabilmente seduto nell’angolo sinistro della stanza, vicino alla macchina per scrivere portatile, su cui pigiava con un dito solo, circondato da cani e da gatti». Sandro De Feo, grande cronista dell’Italia di quegli anni, sostiene che intorno a lui molti respiravano l’odore di zolfo che si sprigiona dalle idee dei grandi eretici. Lui stesso, prima di morire, disse di essere «uno dei pochi reazionari che vi siano oggi».
La sua prima polemica fu con Mussolini. Correva l’anno 1913 e Mussolini, allora direttore dell’Avanti!, lo trattò molto duramente per un saggio sulla revisione del marxismo che egli aveva appena pubblicato. Ma anche Gentile, in quegli anni, era socialista. I suoi debutti giornalistici furono nell’Avanti! e nell’Unità di Gaetano Salvemini. Dopo la grande guerra fu avvocato, insegnò filosofia del diritto all’università di Napoli, pubblicò libri sull’Ideale d’Israele, sul Genio della Grecia, sulla Storia del cristianesimo.
Approdato nelle file del partito liberale, fu tra i fondatori del Mondo di Pannunzio, divenne consultore nazionale del partito e diresse La Nazione di Firenze dal 1952 al 1953. Ma anche tra i liberali fece casa a sé con pochi amici e seguaci. Ostile alla direzione politica di Giovanni Malagodi creò una corrente, Rinascita liberale, e dette battaglia alla segreteria durante i congressi del partito.
Più passavano gli anni, più il suo liberalismo diventava amaro, élitario, conservatore. Non gli piaceva la democrazia cristiana, non gli piacevano i comunisti, il centro-sinistra, i sindacati, la Rai, gli enti parastatali, gli intellettuali di regime e il servile culto della gioventù con cui la classe politica cercava d’ingraziarsi le nuove generazioni negli anni dei primi torbidi studenteschi.
Dopo avere scritto per la stampa liberal-moderata – Risorgimento Liberale, La Nazione, Corriere della Sera – scivolò verso l’estrema destra dello spettro giornalistico italiano: il Roma, quotidiano di Napoli, Lo Specchio, settimanale diretto da Giorgio Nelson Page, e Il Borghese di Mario Tedeschi. Il neo-fascismo lo corteggiò, ma lui, pur ringraziando per l’ospitalità, continuò a denunciare i due totalitarismi – fascismo e comunismo – in anni in cui questo «cerchiobottismo» irritava sia la destra sia la sinistra. La sua ultima opera fu una requisitoria in tre atti intitolati rispettivamente: Polemica contro il mio tempo, Opinioni sgradevoli e Democrazie mafiose. Morì nel 1971, due anni dopo la pubblicazione dell’ultimo.
Democrazie mafiose anticipa con straordinaria chiarezza i temi che diventeranno attuali all’inizio degli Anni Novanta. Gentile constata che il regime è profondamente corrotto, che i sindacati sono una nomenklatura oligarchica strettamente collegata ai partiti e che la classe politica è composta da piccoli borghesi, carrieristi, spessa privi di una qualsiasi competenza professionale. «Le oligarchie mafiose, cui tendenzialmente sboccano le moderne democrazie – scrive Gentile – sono oligarchie di piccoli borghesi disoccupati, imbevuti di clericalismo ideologico, portati all’intolleranza e allo spirito settario». Ma le ideologie – continua – sono in realtà soltanto «idee vecchie, diventale popolari. (…) Vengono creati schemi dottrinari, che trovano subito una codificazione intangibile. Ogni partito ha la sua Thora, i suoi dottori, i suoi farisei e i suoi zeloti. L’ideologismo porta alla clericalizzazione degli spiriti. Le democrazie moderne poggiano sul dogmatismo universale, anche se è ammessa teoricamente una concorrenza di una pluralità di dogmatismi».
Di tutte le ideologie quella che a Gentile appare più vecchia e inutilizzabile è l’ideologia del progresso. Gli uomini, la civiltà e gli Stati «nascono, prosperano e si estinguono, come qualsiasi altra cosa terrena». Nulla è più assurdo e infantile della fede nella linearità della storia. Gli avvenimenti producono spesso conseguenze arbitrarie, casuali, imprevedibili e «nessuno può illudersi di governare un futuro lontano». Come disse Schiller, ricorda Gentile, «la pietra lanciata dallo mano dell’uomo appartiene al diavolo» e non cade quasi mai là dove l’uomo l’aveva lanciata.
La chiave di questo crescente pessimismo è in una prefazione che egli scrisse poco prima di morire per il libro di un reazionario francese, Plancard d’Assac. Nel corso della sua vita Gentile ha visto i fasci siciliani, l’assassinio di Umberto I, la grande guerra, la morte della democrazia liberale, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, la degenerazione partitocratica della nuova democrazia italiana. Si guarda indietro, rilegge alla luce delle sue esperienze la storia dell’800 e non nasconde lo propria nostalgia per un’epoca in cui gli Stati erano governati da un borghesia sobria e dignitosa, il suffragio era ristretto, gli uomini erano allevati nella religione dei padri e la Chiesa «non era in tuta».
La data da cui egli fa decorrere questa età dell’oro è il 1830, la sua personalità più rappresentativa è Luigi Filippo, re dei francesi, simbolo dei «giusto mezzo». Finita l’età dell’oro tutto – dall’arte alla famiglia, dalla politica all’economia – si è progressivamente guastato e corrotto. Le pagine che Gentile dedica al decadentismo ermetico o astratto dell’arte e della letteratura moderna ricordano l’atto di accusa di Ortega y Gasset contro la «disumanizzazione dell’arte». Le pagine sulla religione rievocano la protesta tradizionalista di monsignor Lefebvre contro la Chiesa del Concilio.
A questo punto il ciclo del pensiero di Gentile si è ormai compiuto: il giovane socialista è diventato liberale, il liberale è diventato conservatore, il conservatore è diventato reazionario. Come tutti i grandi reazionari Gentile dispera di potere cambiare le cose. Come tutti gli antidemocratici sa che il ricorso al suffragio non serve a nulla. Ma alla fine della sua vita è preso da uno scatto di collera: «A battaglie nuove bisogna dare strategia nuova. La nostra non è un’opposizione nel regime, ma un’opposizione al regime». Non sapremo mai che cosa intendesse dire. Forse voleva semplicemente far sapere al lettore che avrebbe continuato a scrivere e a denunciare finché avesse avuto un dito con cui pigiare sulla macchina per scrivere.