Robert Louis Stevenson and his Family, c. 1891

Robert Louis Stevenson | Saggio di Francesco Binni

Robert Louis Stevenson. Vita, profilo storico-critico dell'autore e dell'opera, guida bibliografica a cura di Francesco Binni

di Francesco Binni

La vita e l’opera
Robert Louis Stevenson nacque a Edimburgo il 13 novembre 1850, figlio di Thomas Stevenson, ingegnere costruttore di fari costieri, e di Margaret Isabella Balfour. Tra i primi dati cui Stevenson farà sempre riferimento spiccano l’origine scozzese e le persone – soprattutto il padre, il nonno materno reverendo Lewis Balfour e la governante Alison Cunningham («Cummy») – cui egli attribuirà la formazione del proprio «mondo di fantasia» e il decisivo influsso sulle scelte e le pieghe di una sensibilità infantile continuamente e oscuramente sollecitata ma anche abilissima nell’escogitare aperture inedite e liberatorie. Dai primissimi anni e fino a iniziazione scolastica avanzata, il mondo di Robert Louis ebbe per scenario costante un dormiveglia di bambino gracile e ammalato, costantemente protetto e lievitato fino al delirio da strane e intricate fole di briganti e di spettri il cui sottofondo cupo e notturno, intrecciato al fanatismo religioso presbiteriano dei racconti degli adulti e a letture che andavano dalla Bibbia a Shakespeare a Walter Scott, alimentava sia fantasticherie di una discendenza del proprio ceppo familiare dal leggendario clan dei Mac Gregor, e da una Scozia arcaica aspra e truce, che forme di vera e propria ossessione religiosa non di rado sfocianti in superstizioni e incubi. Come più di un protagonista dei suoi futuri racconti, Stevenson fu educato a credere che «nel mondo non ci fossero che due campi: quello dei totalmente pii e rispettabili e quello dei totalmente profani, mondani e malvagi; i primi quasi sempre in ginocchio a cantare inni, i secondi sulla via della forca e dell’inferno più nero». Alla fine, anche il terrore della morte e della dannazione viene metodicamente ridotto a gioco e innocentemente esorcizzato: dal gioco «del pulpito» e delle finte prediche alle predilette finzioni del «rimpiattino» e dei teatrini di cartone, ha inizio forse qui quella scoperta della «realtà» degli artifizi dell’illusione teatrale che Stevenson narratore contrapporrà sempre alla realtà vissuta. Molto precoce l’inizio del tirocinio letterario, tra i dodici e i tredici anni, durante la frequenza, con alterno profitto, di varie scuole: l’esercizio strenuo e coscienzioso per «imparare a scrivere» si nutre di un’enormità di letture e si produce in numerosi pastiches degli autori più ammirati, da Defoe a Montaigne a Hawthorne, con virtuosismi poetici non indifferenti.

Resa saltuaria dal precario stato di salute, la sua istruzione scolastica; tra il 1862 e il 1864 fu in viaggio con i genitori in Olanda, Germania, Italia, Francia, nonché nell’interno della Scozia. Nel 1867 si iscrisse ai corsi di ingegneria dell’università di Edimburgo, secondo un espresso desiderio del padre, per poi tuttavia rinunciare a quegli studi e iscriversi a giurisprudenza, nel 1871. Il periodo studentesco complessivo, 1867–74, mentre non portò a un seguito professionale – perché di fatto Stevenson indossò toga e parrucca dell’avvocatura quasi unicamente «per allegria» e di fronte all’obiettivo di un fotografo, mentre in realtà pensava ad altro –, servì però a fondare un osservatorio spregiudicato ed eccentrico da cui vagliare il costante recupero delle immagini ossessive dell’infanzia al cospetto di un’analisi di quelle insufficienze che la società si ingegnava di dimenticare, e, soprattutto, a far luce piena sul proprio destino di scrittore e non altro. È quindi il momento della bohème e delle pose intellettualistiche, della liberazione dalla famiglia, ma anche quello tutt’altro che goliardico in cui, attraverso la consapevole esplorazione del tessuto sociale di una città – l’Edimburgo erede dell’illustre tradizione culturale scozzese settecentesca – e di un costume di vita «scozzese» sempre apprezzato da Stevenson per la sua «indefinibile unicità», si verificano le angustie dei «benpensanti», lo squallore che sta dietro la facciata della «rispettabilità» borghese esemplificata dalla stessa propria famiglia, si opta istintivamente per i quartieri meno rispettabili di Edimburgo. E, in effetti, se il giovane Stevenson di questi anni era, da una parte, chiamato a far parte della ufficiale Speculative Society, dall’altra si censurava pubblicamente uno Stevenson «ciarlatano da taverna» che sfidava ad alta voce la «brava gente religiosa e casta» ed era quasi intenzionato a sposare Kate Drummond, una prostituta originaria delle montagne scozzesi (Highlands), che gli raccontava in un fraseggio ricco e pittoresco storie del folklore degli altipiani forse non dissimili da quelle che il padre o la governante gli avevano a suo tempo raccontato. Fatto sta che risale a questo periodo, e in concomitanza con la reazione al fariseismo di Edimburgo e l’esplosione delle divergenze religiose con la famiglia, insomma durante il 1873, la scoperta stevensoniana di una «tenebra rischiarata soltanto da qualche mostruoso sfoggio di pettegolezzi… una lotta continua, come un nuotare alla disperata in questo mare di falsità e contraddizioni». L’ultima parola sull’esperienza di questo periodo suona un po’ come una resa: «Dovunque c’è un uomo, c’è una menzogna», e, da una parte, Stevenson stesso, in una lettera del 1872 alla madre, rivendica valore a quella «menzogna» quando dice: «Vorrei che la vita fosse un’opera. Mi piacerebbe viverne una… È come se questa finzione, l’opera, durissima da inghiottire e più convenzionale di tutte le altre, sia destinata a non rinsecchirsi mai dentro di me», mentre, dall’altra, fonda, con il cugino Bob e altri tre o quattro amici, un club privato dalla sigla misteriosa e cospiratoria, LJR (Liberty, Justice and Reverence, ovvero Libertà, Giustizia e Rispetto), che aveva come obiettivo la restituzione delle parole al loro vero significato e un programma politico di fede socialista e atea, almeno negli enunciati, imperniato, intanto, sulla decisione di «disconoscere qualunque cosa ci abbiano insegnato i genitori». È il periodo in cui, durante l’invernata 1873–74 passata nel sud della Francia per ragioni di salute, Stevenson comincia a scrivere e pubblicare racconti e saggi, rifiuta completamente il rigido calvinismo della religione paterna e la sua visione manichea di un mondo in bianco e nero, ne sostituisce la presenza con la discepolanza di Darwin e di Meredith, ma si accorge anche di non poter risolvere il problema di quella rinuncia sic et simpliciter e si interessa a fondo delle aurorali ricerche di psicologia scientifica, dei fenomeni metapsichici e paranormali: sonnambulismo, dissociazione psichica, sogni, doppia personalità ecc. Stevenson, insomma, già in questi anni centrali del decennio 1870 segretario di una società psichica edimburghese, si serve degli strumenti di una nascente psicologia che poi peserà non poco sulla tematica centrale alla sua opera da The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde) (Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde) a The Master of Ballantrae (Il Master di Ballantrae) all’attività saggistica, del «forte senso della doppia esistenza dell’uomo», ma lo fa avvertendone tutto il disagio (dirà in una lettera-riepilogo del 1891 a H.B. Baildon: «In fondo sono sempre stato uno psicologo e me ne vergogno»), come se si trattasse di una questione personale, di una difesa della propria divisione e doppiezza. In effetti, quest’ultima è viva, oltre che sul piano delle proprie convinzioni sociali e religiose, su quello della stessa produzione letteraria, ancora incerta tra la vena dei «libri di viaggio» e quella della narrativa creativa, tra la pura raccolta e registrazione di un largo materiale di sensazioni e di esperienze e l’aver qualcosa di realmente nuovo e importante da dire in modo originale. I vagabondaggi francesi, a più riprese tra il 1875 e il 1878, fruttarono a Stevenson piacevoli soggiorni a Fontainebleau e a Barbizon (nella cui foresta nacquero i saggi sull’amatissimo Francois Villon e su Charles d’Orléans) e il cruciale incontro con un’americana, Fanny Osbourne, in vena di divorzio e in gita europea con i propri figli Isobel e Lloyd, che di lì a poco sarebbe diventata la signora Stevenson. Intanto, il bilancio di quei quattro anni di viaggi e di lavoro appare abbastanza lusinghiero e soprattutto vario: da un curioso pamphlet indirizzato al clero scozzese e destinato, pare, a lenire lo sgomento familiare per la brusca rinuncia a quella «teologia metafisica» che, scrive Stevenson, «ronza intorno a ogni scozzese fin dalla culla» e a «chiarire» pubblicamente – da novello autore di successo – la propria posizione in merito, fino a studi letterari su Poe, Whitman, Hugo, ai quali seguì la maggior parte dei saggi poi compresi, nel 1881, in Virginibus Puerisque, poi alcuni racconti brevi e un romanzo a puntate, The New Arabian Nights (Le nuove mille e una notte). Ma questi sono soprattutto gli anni dei primi libri, che sono libri di viaggio e insieme ritratto dell’artista come giovane nomade, per ora in Francia: An Inland Voyage (Un’escursione nell’entroterra, 1878), e Travels with a Donkey in the Cevennes (Viaggi con un asino nelle Cevenne. 1879), l’ultimo e più interessante, descrizione di una regione selvaggia e povera, appunto le Cevenne, una catena montuosa della Francia meridionale abitata dai discendenti degli ugonotti scampati ai massacri di due secoli prima: il libro, che ha un po’ dell’allegoria religiosa e un po’ del manifesto di un vitalismo esistenziale («Per quel che mi riguarda, io viaggio non per andare da qualche parte, ma per andare. Viaggio per viaggiare. La gran cosa è muoversi, sentire più acutamente il prurito della nostra vita, scendere da questo letto di piume della civiltà e sentirsi sotto i piedi il granito del globo appuntito di selci taglienti»), abbonda di vignette ora ariose e adamantine ora di una natura notturna e glacialmente nuda, ma il reportage minuto e realistico, denso di epifanie visive, coltiva anche l’ambizione segreta di un sondaggio antropologico, anche se elementare, sul proprio carattere di protestante scozzese a contatto con un modello di vita più intatto e sereno, quello che appunto il pellegrino vede emergere ad ogni passo negli incontri occasionali e nelle comunità protestanti discendenti dai prodi camisards che avevano a lungo guerrigliato su quelle aspre montagne contro la persecuzione religiosa scatenata da Luigi XIV.

Nella dimensione del viaggio è il tentativo che Stevenson, pur malandatissimo di salute, portò avanti, imperterrito, di mutare continuamente la propria situazione nel mondo, di «viaggiare non solo fuori del mio paese in latitudine e longitudine, ma anche fuori di me stesso in dieta, amicizie e considerazione». È durante un ennesimo viaggio, quello compiuto nel giugno 1879 su una nave di emigranti alla volta dell’America, per raggiungere Fanny (che sposerà l’anno successivo), che Stevenson prende appunti per quel The Amateur Emigrant (L’emigrante dilettante) che poi, per varie vicissitudini ma soprattutto per la violenta opposizione dei suoi amici e consiglieri letterari che lo considerarono un ritratto di vita troppo squallido e troppo minuto per gli standard di allora, poté essere pubblicato solo nel 1895, a morte avvenuta del suo autore. Si tratta di «impressioni» e «scene» della traversata oceanica che divengono anche però un esempio cospicuo dell’impegno di scrittore di Stevenson, di quel suo limpido e originale raccontare i fatti del mondo e quelli dello scrittore che li incontra umilmente, alieno da ogni altero professionalismo e da ogni retorica del bello scrivere o della «nota lirica». Di coloro che, lasciando la Scozia puritana, s’imbarcano sul bastimento per la «terra promessa» d’America, scrive Stevenson, lieto di scrivere di sé come uno di loro: «Solo allora cominciai a capire quanto dura era stata la battaglia. Eravamo una compagnia di reietti: gli ubriaconi, gli incompetenti, i deboli, i prodighi, tutti quelli che erano stati incapaci di avere la meglio sulle circostanze in un paese ora fuggivano penosamente in un altro, e sebbene uno o due di loro potessero ancora aver successo, tutti erano già falliti. Eravamo un’imbarcata di fallimenti, i rovinati d’Inghilterra. Ma non si creda che ci si mostrasse depressi. Al contrario, c’era molta allegria a bordo». Ed ecco la donchisciottesca silhouette di un privilegiato sui generis, seriamente ammalato e senza un soldo, mescolarsi senza alcuna aria di sufficienza o di rimpianto – e facendo anzi di tutto per i compagni di pena sottoposti al trattamento sommario che Stevenson ben documenta – ai delusi che procedono stancamente e agli illusi dal miraggio del «denaro e delle macchine a vapore», che «non riuscivano a vedere le relazioni fra i vari fatti, ma si buttavano su una cosiddetta causa e così facendo pensavano che il problema fosse risolto». Tra l’ottobre e il dicembre 1879, dopo un viaggio massacrante a bordo di un treno di emigranti che lo aveva portato da New York a San Francisco, dove Fanny, in attesa di divorzio, lo attendeva, Stevenson si ferma a Monterey, il ridente villaggio di pescatori sul Pacifico, e lì cerca di rimettersi in salute, mentre, allo stremo delle forze e nell’indigenza più assoluta, dà mano a più progetti contemporaneamente, e alcuni li porta a termine – tra essi, il suggestivo racconto The Pavilion on the Links (Il padiglione sulle dune) e lo stesso Emigrante dilettante – mentre altri restano incompiuti anche per lo scarso entusiasmo di committenti e amici inglesi (la famiglia gli ha intanto tagliato i viveri) che gli fanno capire chiaramente quanto siano sconcertati e indispettiti dallo scialo delle sue energie creative in una vita ridotta all’elementarità e del tutto isolata dai rispettabili rapporti di società. Stevenson replica, certo di non poterli convincere sul loro terreno, o con lettere terse come l’aria luminosa delle montagne del Pacifico o con rapporti informativi pieni di humour e di una tragica serenità sui ridotti e sempre uguali movimenti quotidiani intorno alla camera d’affitto di San Francisco, in Bush Street, dove si è frattanto trasferito da solo in attesa che Fanny sia definitivamente sciolta dal precedente matrimonio. La vita che Stevenson conduce in questo periodo, in mezzo a crisi continue del male che lo consuma e combattuto con uso larghissimo di laudano, ha dell’eroico ed è tuttavia di una semplicità disarmante: lo scrittore lavora instancabile, gira San Francisco per lungo e per largo, ne scopre e descrive la bellezza, ne segue le linee prospettiche dell’architettura più elegante e ricca fin dove si prolungano in luoghi meno ameni, e «alcune incontrano il loro fato nella sabbia, altre sono costrette a farsi una passeggiata nei malfamati quartieri cinesi, altre ancora vanno a finire dritte in mare, altre infine periscono illacrimate tra porcili e mucchi di spazzatura». A sera, scrive Stevenson di se stesso, «verso le undici o undici e mezzo, calano le tenebre sopra questa mia irreale e feroce esistenza».

Il 19 maggio 1880 Robert Luois e Fanny si sposano e vanno in luna di miele, insieme a Lloyd, figlio di Fanny, su un’alta montagna, 50 miglia a nord di San Francisco, dove prendono possesso di un campo minerario abbandonato, con le sue baracche di legno aperte alle intemperie, e vi vivono in isolamento per circa due mesi. Stevenson tiene un diario, poi trasformato in libro tre anni dopo, The Silverado Squatters (Gli occupanti di Silverado), che registra la scoperta indelebile di come, tra gli erosi relitti di quella città fantasma dell’uomo che è Silverado. lo scrittore possa arrivare a riconoscere e a provare su di sé quella immediata interpretazione delle cose che tiene l’arte continuamente desta alle realtà della vita, ai colori stessi del sentimento: è qui che lo stile vividamente grafico di Stevenson fa le sue conquiste nella misura di un occhio d’artista che è attentissimo a registrare il punto esatto in cui lo splendore luminoso e l’evidenza delle cose presenti si spegne e si cala, dice Stevenson, «nella terra del passato». E così ecco la grande affascinata curiosità di Stevenson per i fenomeni geologici delle montagne californiane e per tutte le stinte tracce della mano dell’uomo sul paesaggio, per la storia di una vecchia miniera abbandonata alle sue presenze fantomatiche: qui, scrive Stevenson, «vivevamo così interamente nello sfacelo di quella grande impresa, come acari nei ruderi di un formaggio, che l’idea dell’antico trambusto ossessionava il nostro riposo». Dopo questo cartesiano e insieme evocativo riuscitissimo esito di un’arte e di una vita en plein air, gli Stevenson tornano in Europa, mobili negli anni 1880–87 tra Davos, la riviera francese, Boumemouth, con occasionali visite a Londra e in Scozia: ora Stevenson può permettersi soggiorni dispendiosi grazie alla pubblicazione di opere di gran successo: Treasure Island (L’isola del tesoro, 1883), Prince Otto, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e poi quei romanzi per ragazzi, Kidnapped (Il fanciullo rapito) e The Black Arrow (La freccia nera), che segnano il punto d’arrivo di una rimediatazione fiabesca di una storia scozzese che aveva sempre colpito Stevenson, fin da bambino, per la sua cupezza e i suoi sottofondi morali e allegorici. Fatti importanti: l’amicizia con Henry James e l’inizio di un rapporto di reciproca stima che darà vita a un ricco epistolario sull’arte narrativa, l’approfondito interesse per le ricerche psichiche con contributi saggistici in proposito, l’ammirazione per Tolstoj e soprattutto per Dostoevskij, la cui lezione si vedrà in racconti centrali come Markheim, sul tema del delitto e dell’espiazione.

Nell’agosto 1887, con moglie, madre e figliastro (il padre essendo morto), Stevenson lasciò per sempre l’Europa diretto in America: qui restò poco meno di un anno, soggiornando soprattutto nella zona dei monti Adirondack, nel nord dello stato di New York, e al lago Saranac. È qui che cominciò a scrivere Il Master di Ballantrae. Nel giugno 1888 partì con la famiglia per una crociera nel Pacifico del sud, che lo portò alle isole Marquesas, a Tahiti e a Honolulu (dove passò sei mesi e visitò il lebbrosario di Molokai) e poi nel giugno 1889 alle isole Gilbert per arrivare a Samoa a Natale. Dopo una breve visita a Sidney, e altre crociere, Stevenson decise di stabilirsi permanentemente a Samoa. Nel novembre 1890 acquistò del terreno in località Vailima, ci si costruì una casa senza tanti comfort e diventò una sorta di capo onorario dell’isola, di cui prese a cuore gli affari politici interni sostenendone, con la propria autorevolezza e il proprio prestigio di qualificatissimo rappresentante della potenza britannica, la dura lotta contro funzionari coloniali, specie americani e tedeschi, che carpivano la buona fede e l’ingenuità degli isolani ingerendosi pesantemente, per i propri lucrosi commerci di alcolici, nelle loro faccende. Gli ultimi quattro anni della sua vita vedono dunque Stevenson ridursi sì alla «cronaca piccola» – eseguita, del resto, con metodo molto coscienzioso e vigile che ne fa più che un semplice diario per vincere la noia –dei fatterelli locali e delle guerre più o meno sanguinose fra isolani (egli stesso fu fatto segno a sassate notturne durante una delle innumerevoli «crisi» di cui volle farsi moderatore) nonché della furia degli elementi non infrequente in quei posti, ma non lasciarsi andare alla morte civile come artista. Il suo impegno creativo, anzi, regge bene proprio per la misura metodica di vita che egli si è inflessibilmente prefisso: ne fanno fede racconti come The Beach of Falesà (La spiaggia di Falesà), The Bottle Imp (Il diavolo nella bottiglia), The Isle of Voices (L’isola delle voci), il potente frammento di romanzo Weir of Hermiston (I Weir di Hermiston), e soprattutto In the South Seas (Nei mari del Sud), splendido resoconto dei tabù degli arcipelaghi e di una cultura rispetto a cui l’uomo occidentale è muto: «…ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni. Ora potevo vedere cosa mai potessero essere gli uomini i cui padri non avevano mai letto Virgilio, né mai erano stati conquistati da Cesare, né mai erano stati governati dalla sapienza di Gaio o di Papiniano. D’un tratto m’ero messo al di là della zona amica delle lingue sorelle dove è così facile rimediare alla maledizione di Babele; ed ecco i miei nuovi simili sedevano davanti a me, muti come immagini… Tutto il resto era scomparso. Noi rimanevamo là, illuminati come un gruppo di stelle in vacuo; sedevamo visibili e ciechi, fra rimboscata generale delle tenebre; e gli isolani, passando con passi leggeri, e parlando a bassa voce, sulla sabbia della strada, inosservati, s’attardavano ad osservarci». Di questo periodo restano anche le Vailima Letters (Lettere di Vailima), indirizzate ad amici inglesi; ad esse Stevenson doveva tenere molto, ma è un fatto che quelle che poi vennero rese pubbliche lo furono in versione mutila, in ossequio ai rigidi canoni del pudore vittoriano, mentre altre restarono gelosamente custodite nei tiretti dei loro destinatari: chi scriveva era stato troppo franco.

Stevenson morì improvvisamente, e non per la malattia polmonare che l’aveva afflitto per tutta la vita, il 3 dicembre 1894, lasciando a metà la dettatura di una frase di I Weir di Hermiston («un’ostinata convulsione di materia bruta…»). Fu sepolto con tutti gli onori riservati a un capo sulla cima del monte Vaea a 1300 piedi sul Pacifico.

Fortuna e metodo dello scrittore
La migliore invenzione stevensoniana fu Stevenson stesso, un personaggio cioè capace di emanare un’immagine pubblica tale da soppiantare la sua stessa produzione letteraria; ancor prima della morte dello scrittore, insomma, e del prevedibile profluvio di biografie romanzate del «vittoriano ribelle», fu quell’effigie (e quella portentosa sigla «RLS») a costituire la garanzia del best-seller e delle relative eccezionali vendite per ognuno della fortunata serie di libri che Stevenson pubblicò. E quell’immagine pubblica, poi destinata ad essere oltremodo esagerata ed edulcorata per fini commerciali, a spiegarci il perché dell’enorme popolarità di Stevenson ma anche del progressivo e quasi inarrestabile deterioramento di cui la sua reputazione ha sofferto quasi generalmente nel Novecento: in periodi cioè in cui il personaggio e la formula narrativa impliciti in quell’immagine di scrittore hanno subito un notevole ridimensionamento. Gli «anni di Stevenson», i cruciali dal punto di vista della sua resa letteraria ma anche dei tempi in cui egli visse, vanno dal 1883, l’anno di pubblicazione del primo grandissimo successo di L’isola del tesoro, all’anno della morte, il 1894. L’astro stevensoniano si muove dunque a cavallo degli ultimi due decenni del regno vittoriano, con tutto l’apparato fine secolo inglese, completo di opinioni scientifico-politico-metafisiche, usi e costumi, incluse le certezze positivistiche, nel quale Stevenson – anche nelle lontananze dello «splendido isolamento» oceanico degli ultimi anni – è profondamente radicato e con cui anzi egli identifica quasi senza residui la propria etica di uomo del suo tempo (dirà poco prima di morire: «È così. Non posso essere più saggio della mia generazione») e di un’Inghilterra (del famigerato «compromesso vittoriano») non più rispondente agli ormai ingialliti quadri realistici alla Dickens ma descritta sempre più dai monopoli e dalla massa organizzata. In questi anni, la storia della popolarità di Stevenson va di pari passo con quella dell’arrivo alla letteratura di una vasta generazione di nuovi lettori (tutti quelli considerati dal Forster Act del 1870 che renderà obbligatorio in Inghilterra almeno il «saper leggere e scrivere») che, adulti, trovarono un’aurorale ma già agguerrita industria culturale pronta a fornire una pubblicistica periodica di consumo in alternativa a quella che restava l’«alta letteratura» riservata a una minoranza. A beneficiare di questo cambiamento in maniera molto tangibile il primo fu proprio Stevenson quando si vide tributato il formidabile successo che s’è detto per quell’Isola del tesoro, pensato come romanzo a puntate per ragazzi, che, pubblicato prima come tale sul periodico «Young Folks» (Gente giovane) e poi in volume, si rivelò popolarissimo presso il nuovo pubblico adulto. D’ora in poi Stevenson figurerà come l’unico scrittore del suo tempo veramente capace di colmare il vuoto tra la minoranza colta educata alla letteratura e il vasto pubblico (ora non più illetterato ma ancora non facente parte di un vero e proprio pubblico di lettori di libri) che vuole identificarsi nei modelli di una cultura superiore, chiede di conoscere, stimolato dalla stampa e favorito dall’editoria, tutti i particolari della storia degli autori che ha scelto. E si può dire che Stevenson fu, o si fece, per quel pubblico, non solo un sobrio e nitido artista della parola erede di un’alta tradizione letteraria, ma il novelliere delle Nuove mille e una notte, un narratore di favole che – anche dove il significato è avvolto nell’ambiguità come nella favola sociale di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde – non cerca mai d’ingannare il proprio pubblico; è la ragione per cui, pur praticando consistentemente e portando a perfezione un filone narrativo – quello dell’invenzione dell’avventura e del mistero – spesso associato alla cosiddetta «letteratura popolare» o «d’evasione» la cui funzione principale è quella di titillare il lettore con «sensazioni» fini a se stesse, Stevenson si rifiutò di sfruttare il terreno vergine della narrativa poliziesca o investigativa denunciandone «l’insincerità e il tono superficiale» e gli esiti invariabilmente «seducenti» ma insignificanti, come una partita a scacchi e non come un’opera dell’arte umana». È così che, pur confessando nel 1886, all’apice di un successo di decine e forse centinaia di migliaia di copie vendute, un certo fastidio («Ciò che il pubblico suole preferire è un lavoro fatto alla buona: un lavoro un po’ verboso, approssimativo, leggermente confuso, non troppo legato; meglio ancora s’è un tantino sciocco. A volte può piacere anche il lavoro serio; ma se mi metto una mano sul cuore, debbo dirvi che è per puro caso») o, più tardi, il rimpianto per essersi dovuto assoggettare alle regole editoriali («Che libri avrebbe potuto scrivere Dickens se glielo avessero permesso!… Che libri avrei potuto scrivere io stesso! Ma loro ci danno una scatoletta di gingilli e ci dicono: “Non devi giocare con nient’altro che questi”»), sentendosi insomma limitato rispetto alla libertà assoluta di cui godono «Flaubert o Balzac», è pur vero che la particolare linea narrativa che più gli è connaturata, e che non è certo incline a una durevole testimonianza diretta e obiettiva dello scrittore nel mondo dei fatti bensì alla visione fiabesca irradiata dall’interno di un’esperienza soggettiva e romantica del reale in cui i fatti che contano sono la «visione» dell’artista e la sua capacità di leggere il paesaggio misterioso della coscienza, andò indenne sia dalla pressione che in quegli anni indirizzava sempre più gli scrittori a descrivere naturalisticamente la società nei suoi aspetti più quotidiani e sgradevoli, che dalla tendenza estetizzante a un’arte fine a se stessa e a un morbido edonismo che dimentica o ammanta vaporosamente i fatti della vita. Il nitore e la funzionale sobrietà dello stile stevensoniano, anche là dove la vicenda narrativa si fa tenebrosa e melodrammatica come nel bellissimo racconto The Merry Men (Gli uomini allegri) o anche nel Master di Ballantrae, rimanda più all’equilibrio razionale di una proposizione geometrica che alla ricchezza slabbrata ed eccessiva di tanto simbolismo anche di stampo naturalistico. E si capisce bene come il rifiuto stevensoniano del realismo, il cui pericolo gli pare quello di «sacrificare la bellezza e la significanza del tutto a una destrezza locale o di immolare i lettori sotto i fatti alla folle ricerca della completezza», riposi sulla convinzione che l’opera d’arte resta sempre aliena, nella sua forma equilibrata, al caos irrazionale della vita, che, con quest’ultima, essa non può in nessun caso competere, né può proporsi di ricoprirla e rappresentarla. Un romanzo, dunque, non è una riproduzione della vita da giudicare sulla base della sua fedeltà, ma è piuttosto la selezione e semplificazione di dati aspetti vitali che, al di sopra della normatività sociale, solo all’artista è dato di esplorare e identificare. Quasi tutta la narrativa stevensoniana funziona, di fatto, nell’espressiva semplicità di una scelta imperniata consistentemente su un punto: «tirar fuori i fatti della vita più netti, nudi e affilati che ho potuto». La scelta stevensoniana di scrivere «l’avventura appassionata dell’uomo» anziché «il romanzo della società» resta un tentativo romantico, perseguito lucidamente, di non sfuggire alla passione dei fatti fuori dalla retorica dei fatti.

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Guida bibliografica

La migliore edizione completa e annotata delle opere è la Tusitalia Edition, Works, in 35 voll., Heinemann, Londra 1923–27; ci sono poi raccolte varie: delle poesie (Collected Poems, a cura di J.A. Smith, Hart-Davis, Londra 1950), dei saggi (Essays: A Selection, a cura di M. Elwin, Macdonald. Londra 1950), delle lettere (Selected Letters, in 4 voll., Methuen, Londra 1911), dell’importante scambio epistolare con Henry James (Henry James and R.L. Stevenson: A Record of Friendship and Criticism, a cura di J.A. Smith, Hart-Davis, Londra 1948).

OPERE BIOGRAFICO–CRITICHE
H. James, Notes on Novelists, New York 1914;
Gilbert K. Chesterton, Robert Louis Stevenson, London 1927;
M. Elvin, The Strange of R.L. Stevenson, ivi 1950;
D. Daiches, Stevenson and the Art of Fiction, New Haven 1951;
J.C. Furnas, Voyage to Windward: The Life of Robert Luois Stevenson, London 1952;
R. Andington, Portrait of a Rebel: The Life and Work of R.L. Stevenson, ivi 1957, trad. it., Milano 1963;
G.B. Stern, Robert Louis Stevenson, London 1961;
R. Kiely, Robert Louis Stevenson and the Fiction of Adventure, Cambridge, Mass., 1964;
George H. Ford (a cura di), Victorian Fiction: A second Guide to Research, New York 1978 (include un capitolo su R.L. Stevenson di Robert Kiely);
P. Maixner, Robert Louis Stevenson: The Critical Heritage, London 1980;
R.G. Swearingen, The Prose Writings of Robert Louis Stevenson: A. Guide, ivi 1981;
Jenni Calder (a cura di), Stevenson and Victorian Scotland, ivi 1981;
Andrew Noble (a cura di), Robert Louis Stevenson, ivi 1983.

Sull’Isola del tesoro in particolare si vedano:
Harold F. Watson, Coasts of Treasure Island: A Study of the Backgrounds and Sources for Robert Louis Stevenson’s Romance of the Sea, Londra 1969;
Hayden W. Ward, «“The Pleasure of Your Heart”; Treasure Island and the Appeal of Boys’ Adventure Fiction», in Studies in the Novel, vi, 1974, pp. 304-17;
Alastair Fowler, «Parables of Adventure. The Debatable Novels of Robert Louis Stevenson», in Nineteenth-Century Scottish Fiction, a cura di Ian Campbell, Londra 1979.

CONTRIBUTI ITALIANI CRITICO–SAGGISTICI
M. Praz, «Successo di Stevenson», in Cronache letterarie anglosassoni, vol. I, Roma 1950;
C. Pavese, «Robert L. Stevenson», in La letteratura americana e altri saggi, Torino 1953;
E. Cecchi, «Robert Luois Stevenson», in Scrittori inglesi e americani, vol. I, Milano 1962;
G. Mochi, Stevenson e il “testo semplice” dell’avventura: «Treasure Island», in «Paragone», XXXIV (1983), 400, pp. 9-43;
G. Almansi (a cura di), Robert Louis Stevenson: L’isola del romanzo, Palermo 1987;
C. De Stasio, Introduzione a Stevenson, Bari 1991).

EDIZIONI ITALIANE DELLE OPERE
Romanzi e racconti, introd. di E. Cecchi, Roma 1950;
Tutte le opere, introd. di S. Rosati, Milano 1967;
L’isola del tesoro, trad. di P. Jahier, Torino 1963;
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, trad. di P.B. Marzolla, ivi 1967, trad. di L. Ferruta, Milano 1987;
Nei mari del Sud, trad. di C. Alvaro, Roma 1944.
E, ovviamente, tante e tante altre di queste come di tutte le altre opere stevensoniane.

Fonte: Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Garzanti, 1996

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