FINSE CON L’AVVERSARIO DI ESSERE IN SUO PUGNO, MA LO ATTIRÓ DOVE VOLEVA LUI…
E NON FECE PRIGIONIERI
Il più grande condottiero di Roma Antica arrivava dalla gavetta e si era fatto strada tra mille insidie, oppresso dai debiti e dall’ambiente competitivo e violento della tarda repubblica. La sua discendenza dalla gens lidia, e quindi da Romolo, era lontana nel tempo e la sua famiglia viveva nella malfamata Suburra della città. Cesare dovette costruire la sua fortuna partendo dal basso, conquistando a colpi di gladio regioni lontane e non facendosi scrupolo di scatenare una guerra civile. Sconfitto Pompeo, i seguaci del suo nemico lo attesero a Tapso, per la battaglia che gli portò in dote un continente, l’Africa.
di Andrea Frediani
Ce l’ha fatta, Cesare. Dopo quasi cinque mesi di tentativi a cavallo tra il 47 e il 46 a. C., finalmente il dittatore1 è riuscito costringere gli avversari a una battaglia campale. E adesso vedranno, Metello Scipione, Tito Labieno, Lucio Afranio, il re numida Giuba, di che pasta sono fatti i suoi veterani! Sarebbe anche ora che la Fortuna lo assistesse. Questa campagna d’Africa, dopo le brillanti vittorie dell’ultimo biennio in Grecia e in Spagna contro i pompeiani, nel Ponto contro Farnace e in Egitto, nella guerra civile tra i due fratelli Tolomeo e Cleopatra, si è rivelata piuttosto fallimentare, finora. La traversata dalla Sicilia è stata poco fortunata: le navi con i legionari, disperse da una tempesta, sono arrivate alla spicciolata, obbligando Cesare a rivedere i suoi piani e a rinunciare alla conquista di una solida base operativa. Poi Labieno, il suo luogotenente in Gallia, ora il suo più acerrimo nemico, gli ha inflitto due mezze sconfitte, ad Adrumeto e a Ruspina. Infine, i nemici si sono rinchiusi nelle loro roccaforti e a Cesare non è rimasto altro che devastarne i dintorni. Una tattica che gli si è ritorta contro, perché gli indigeni, ora, gli sono ostili e le fonti di sostentamento si sono ridotte. Il dittatore è arrivato perfino a distribuire fogli, quasi volantini di propaganda, con cui promette alla popolazione di astenersi dalle devastazioni e ai soldati nemici la concessione dell’impunità e delle stesse ricompense destinate ai propri soldati.
Un’esca irresistibile. L’unica possibilità di sopravvivenza, per Cesare, sarebbe quella di attirare gli avversari in uno scontro campale, e adesso pare esserci riuscito. Gli è stato sufficiente porre l’assedio a Tapso, importante cittadina sul promontorio di Ras Dimasse, lungo la costa orientale dell’attuale Tunisia, a sud di Cartagine. Strano luogo per edificare una città. Bisogna immaginare uno spuntone di terra incuneato nel mare, con un ampio lago salato nel mezzo, la Sebkha di Moknine. Tapso si trova sulla punta estrema e le sole vie di accesso alle sue porte sono ai fianchi della laguna: due sottili strisce, due istmi in parte paludosi e impraticabili.
Insomma, lo scacchiere ideale per indurre un nemico a pensare di bloccare lì un assediante. Ed è proprio quello che ha fatto Metello Scipione, comandante in capo della coalizione anticesariana. Il 4 febbraio del 46 a.C. (secondo il nostro calendario) Cesare ha appena iniziato a costruire opere di fortificazione intorno alla città per isolarla dall’entroterra. L’esercito avversario compare all’inizio dell’istmo orientale, dove si accampa a dodici chilometri da Tapso. Il giorno seguente Scipione compie un primo tentativo di portare soccorso alla città; ma Cesare ha disposto un presidio di tre coorti2 lungo l’istmo, per bloccare le forze nemiche almeno il tempo sufficiente a completare le opere d’assedio. I pompeiani desistono, ma solo per poco. La notte stessa Scipione lascia nei rispettivi campi il re numida Giuba e il suo luogotenente Afranio e riprende la marcia con la gran parte dell’esercito e sedici elefanti. Costeggiando il lago raggiunge l’istmo opposto e allestisce un nuovo campo trincerato. Probabilmente è molto soddisfatto di se stesso. Ha tolto a Cesare qualunque via d’uscita, trasformando quel promontorio in una trappola per il suo esercito: da una parte la città con la sua guarnigione e il mare, sull’istmo settentrionale lo stesso Scipione, su quello orientale Giuba e Afranio, in mezzo la laguna e le sue paludi. Qualunque comandante sano di mente, al posto di Cesare, non potrebbe contemplare altro che la resa: se anche provasse a sfondare da un lato, non potrebbe evitare di essere attaccato contemporaneamente da tergo. Se lo scopo di una strategia efficace è quello di mettere l’avversario in condizione di non nuocere, allora l’obiettivo di Metello Scipione sembra conseguito.
E invece, è stato Cesare a piazzare il nemico nel punto da lui prescelto. Inconsapevolmente, Scipione ha fatto il gioco del dittatore, che adesso ha la possibilità di affrontarlo sul campo di battaglia. Cesare lo ha indotto a dividere le forze, per giunta attirandolo in uno spazio ristretto e paludoso che vanifica la forza d’urto degli elefanti e l’efficacia di cavalleria e fanteria leggera, di cui Scipione dispone in misura largamente superiore.
Una tattica prevista. Cesare dispone di sette, forse otto legioni. Ne lascia due al suo luogotenente Asprenate, perché presidi Tapso e gli guardi le spalle, e si precipita verso il nuovo campo nemico. Arriva mentre lo stanno ancora trincerando. A quel punto Scipione si rende conto che il campo di battaglia, delimitato dal mare a sinistra e dalla laguna a destra, non gli è favorevole e vorrebbe evitare lo scontro; ma il suo prestigio ne risentirebbe, così schiera gli uomini: i fanti al centro, i cavalieri sulle ali, gli elefanti davanti, otto per lato.
Cesare ha già preso le sue contromisure. Due legioni a destra, due a sinistra, disposte nelle classiche tre linee, più la poca cavalleria di cui dispone, i frombolieri e gli arcieri in posizione avanzata. Ha un’altra freccia al suo arco: la V Legione “Alaudae”. I suoi uomini sono stati addestrati proprio ad affrontare i pachidermi e, non a caso, l’elefante diventerà il simbolo sulle insegne dell’unità. Ma Cesare esita, prende tempo, tiene un discorso ai soldati, esorta le reclute a emulare il coraggio dei veterani. Forse le legioni dal lato della laguna tardano a schierarsi, per via del terreno paludoso che le rallenta; forse, come sostiene Plutarco, ha uno dei suoi attacchi epilettici. I soldati, comunque, arrivano a scongiurarlo di dare il segnale d’attacco.
Le trombe suonano. Ma non è stato Cesare a dare l’ordine. È stata la X Legione, all’ala destra, a partire all’attacco. Proprio la X, un tempo prediletta di Cesare, ma che da un biennio è in punizione per aver guidato una sedizione in Campania, mentre il suo comandante supremo era in Egitto, a spassarsela con Cleopatra. Vogliono farsi perdonare, quei truci veterani, e si lanciano verso il nemico, nonostante il tentativo dei loro centurioni di fermarli. A quel punto, Cesare ritiene di non limitare l’ardore dei soldati. Lancia la parola d’ordine, Felicitas! (“Buona fortuna”), sprona il cavallo e si lancia contro le schiere avversarie.
Gli elefanti sono i primi a fare le spese della furia dei cesariani. Scrive uno dei soldati che erano con Cesare: “Le bestie, atterrite dal sibilo delle floride, dai colpi delle pietre e dalle ghiande di piombo, si voltarono e pestarono i soldati del proprio esercito che dietro di loro stavano fittamente accalcati“.
L’anonimo autore del resoconto della battaglia narra di aver visto con i propri occhi la seguente scena: un elefante, accecato dal dolore per le ferite, schiaccia prima con la zampa poi con il ginocchio un inerme vivandiere; un veterano della V Legione si sente in dovere di affrontare il pachiderma, ma viene sollevato dalla proboscide e, nonostante ne sia completamente avvolto, non smette di menare fendenti con la spada; alla fine l’animale è costretto a mollare la presa e scappare.
Scappano i soldati di Scipione, scappano i cavalieri numidi; i pochi che cercano di resistere lungo il vallo del campo ancora incompleto vengono trucidati. Inizia l’inseguimento. Scipione si è già dileguato salpando su una nave ancorata nei pressi di Tapso. C’è pure un tentativo di sortita dalla città, ma le truppe di Asprenate lo stroncano sul nascere.
Le due armate costeggiano il lago salato, giungendo ai campi orientali dei pompeiani. Le truppe di Cesare si impadroniscono facilmente di quello di Giuba, con il re già lontano. I soldati di Afranio si asserragliano su un colle ma poi, non trovando un solo comandante ai cui ordini porsi, gettano le armi e si arrendono. Ma i veterani, esasperati da mesi di privazioni, non arrestano il loro slancio: massacrano chiunque capiti loro a tiro, perfino i loro stessi centurioni che tentano di fermare la strage. La propaganda del vincitore dice che Cesare scongiurò i soldati di risparmiare gli avversari sconfitti; ma non si può escludere che il dittatore ne avesse abbastanza di guerre civili, e non intendesse più dispensare la sua proverbiale clementia Cesaris.
Le cifre dello scontro sono eloquenti: i caduti pompeiani – tra la battaglia e il massacro che ne seguì – sono diecimila, quelli di Cesare appena una cinquantina. La disfatta, per la coalizione anticesariana, è talmente radicale che, nell’arco di tre settimane, l’Africa è nelle mani di Cesare. Si suicidano Metello Scipione, poco prima di essere catturato, e Catone che, salvato e curato dopo essersi squarciato lo stomaco, si riapre da solo le ferite. Giuba e il generale Petreio si uccidono a vicenda. Vengono giustiziati Afranio, già fruitore della clemenza di Cesare in Spagna, e Fausto Silla. Ma qualcuno riesce a scappare: i figli di Pompeo Magno, Gneo Pompeo il Giovane e Sesto Pompeo, Attio Varo e il più pericoloso di tutti, Labieno: la loro fuga in Spagna costringerà Cesare a un’appendice di guerra civile. La più sanguinosa.
1. Dittatore. Nella Roma repubblicana il dictator era un magistrato dotato temporaneamente (6 mesi) di pieni poteri per far fronte a una situazione di eccezionale pericolo per lo Stato. Cesare fu nominato tale nel 49 a. C. e riconfermato più volte, fino a diventare dittatore a vita nel 44 a. C.
2. Coorte. Era l’unità tattica della legione, che ne comprendeva 10, ciascuna composta da circa 500 uomini eccetto la prima, che ne aveva il doppio.
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Le ambizioni di un borgataro
Gaio Giulio Cesare nacque a Roma nel 1oo o nel 102 a.C. e dovette attendere a lungo prima di poter mettere in mostra le sue doti di condottiero. Si dice che al suo primo incarico in Spagna, come questore, si fosse trovato di fronte una statua di Alessandro Magno mettendosi a piangere: era nell’età in cui il macedone aveva già conquistato il mondo e lui non aveva ancora fatto nulla di rilevante.
Attaccabrighe. Il suo primo incarico militare di rilievo fu quello di propretore, sempre in Spagna, alle soglie dei quarant’anni. Provocò guerre contro le tribù dell’odierno Portogallo pur di saldare i suoi immensi debiti. Subito dopo conquistò il consolato, trampolino di lancio per un mandato quinquennale in Gallia che, nel tempo, si premurò di farsi prorogare. Dopo nove anni di guerre oltralpe e incursioni in Germania e in Britannia (fu il primo generale romano a varcare il Reno e il canale della Manica) grazie a lui la Gallia intera finì sotto il giogo di Roma.
Gelosie. Cesare si era però fatto molti nemici nell’Urbe; scatenò la guerra civile costringendo i suoi avversari a fuggire, per poi sconfiggerli nell’arco di un triennio in Spagna, Dalmazia, Grecia, Africa e di nuovo in Spagna. Tra una guerra fratricida e l’altra, Cesare trovò il tempo di lottare anche in Egitto, dove il suo intervento rese più saldo il trono di Cleopatra, e di cogliere una vittoria lampo in Asia, contro Farnace del Ponto (“Veni, vidi, vici“). Venne assassinato nel 44 a. C., alla vigilia della partenza per l’impresa più grande, la campagna contro il regno dei Parti.
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Gli eserciti della guerra civile
Durante l’assedio di Durazzo, circa due anni prima della battaglia di Tapso, i cesariani alla fame si trovarono costretti a cibarsi di una radice del luogo. Qualcuno la fece assaggiare anche a Pompeo che, dopo averla sputata, dichiarò: “Con quali bestie combattiamo!”. Era questa, sopra ogni cosa, l’arma vincente di Cesare: veterani pronti a tutto per il loro capo, temprati dai lunghi anni di guerra in Gallia, coperti di cicatrici e di gloria. Come molti altri generali del periodo, li aveva reclutati lui, li stipendiava, li ricompensava con proverbiale generosità, talvolta ancor prima dell’inizio di una campagna, facendosi prestare denaro dagli ufficiali e “legando a sé gli uni come creditori gli altri come debitori” (De bello civili, libro I).
Le reclute di Pompeo. I pompeiani, invece, di legioni veterane ne avevano poche. Molte le avevano dovute arruolare in fretta e furia allo scoppio della guerra civile. All’epoca della battaglia di Tapso, peraltro, le precedenti sconfitte in Spagna e in Grecia li avevano privati delle migliori formazioni, inglobate nelle armate del vincitore, costringendoli di volta in volta a reclutarne altre.
Alleati. Quanto poi alle unità ausiliarie, la morte di Pompeo aveva fatto venir meno l’apporto dei numerosi regni orientali, che presentavano una grande varietà di combattenti. Metello Scipione si avvaleva della cavalleria leggera numida e degli elefanti di re Giuba, mentre Cesare aveva trovato l’appoggio dei Mauri di re Bocco, che in parte riforniva di armamento romano; inoltre, il dittatore si portava sempre dietro, tra gli altri, la cavalleria pesante germanica e reparti di frombolieri balearici e arcieri cretesi.
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GIULIO CESARE ALLA BATTAGLI A DI TAPSO
6 febbraio 46 a.C.
CESARIANI
35-40.000 legionari
2.000 cavalieri
POMPEIANI
50.000 legionari
2.500 cavalieri
16 elefanti da guerra
PERDITE DI CESARE
50 uomini
PERDITE DEI POMPEIANI
10.000 uomini
Fonte: Focus Storia Wars, N. 1 Inverno 2010