di Eliseo Sgarbossa
Per una strana coincidenza di fatti, l’Autrice del presente racconto ci richiama alla mente il nome di Robert Louis Stevenson, il romanziere scozzese che tutti conoscono come l’autore de L’isola del tesoro. Anche Marie Colmont, come Stevenson, ebbe una vita avventurosa, fu appassionata di viaggi, amò l’aria libera e la natura vergine; anch’ella fu narratrice e poetessa, anch’ella ebbe un’esistenza breve ma intensa, morendo a quarantaquattro anni di età, esattamente quanti ne contava il «pirata presbiteriano» quando morì a Upolu, nei Mari del Sud. Si direbbe quasi che i due fossero fratello e sorella, con la sola particolarità che questa nasceva quando l’altro moriva.
Ma vediamo più da vicino le tappe della vita che più ci interessano. Nata nel 1894 da un’antica famiglia francese, Marie Colmont fu presto avviata agli studi letterari, crescendo come una compita demoiselle di fine ottocento, divisa tra la vita parigina e le campagne della provincia. Si sposò, ebbe due bambine e si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove soggiornò per vari anni. Tale soggiorno lasciò nel suo animo tracce profonde, a causa dell’ammirazione suscitata in lei dalla sincerità e dalla generosità dello spirito americano.
La sua passione di studiosa la orientò poi allo studio di questioni storiche, geografiche e archeologiche, e alla traduzione di numerose opere americane e inglesi. Ma questi austeri studi non le impedirono di dedicarsi con altrettanta passione alle iniziative per il rilancio della vita all’aperto: fu propugnatrice dei campeggi turistici e dello scoutismo in Francia; si interessò della vita e del lavoro degli operai addetti ai boschi (taglialegna, carbonai, guardie forestali, raccoglitori di funghi e di frutti boscherecci); fu collezionista di animali e di piante rare; studiò le condizioni di vita della gente fluviale (battellieri, equipaggi di chiatte e di rimorchiatori). A tale scopo ella preferiva viaggiare a piedi o in canoa, per sentire la natura.
Da queste attività esteriori e da questo amore per la natura, Marie Colmont attinse quelle vive immagini della realtà che poi trasfuse nei suoi scritti, e quell’entusiasmo che la rese un’autrice simpatica a tutti i giovani.
La sua prima opera, pubblicata nel 1935, fu Rossignol des Neiges (L’usignolo delle nevi), che ottenne all’autrice il «Prix Jeunesse», istituito proprio in quell’anno. Poco dopo apparve Claque-Patins (Mimí e il girovago), di cui parleremo fra breve, e poi Histoire de Ferlette (Storia di Gocciolina), che narra per i più piccoli le avventure di una goccia di pioggia, dalla nuvola natale fino al mare. Fra i numerosi albi sulla natura pubblicati dalla stessa Autrice, vanno ricordati tre «panorami»: il Fiume, la Costa e la Montagna. Meritevole di attenzione è infine un libro di racconti, Le cygne rouge (Il cigno rosso), che raccoglie le migliori storie di Indiani udite dall’Autrice durante il soggiorno americano.
Oltre a tutto questo, Marie Colmont scrisse regolarmente dei racconti per l’infanzia su diversi giornali francesi, come Paris-Soir Dimanche e Vendredi, letti con passione da diverse migliaia di piccoli abbonati, che ogni settimana attendevano l’appuntamento con la sua pagina.
Mimí e il girovago, che ora presentiamo ai nostri giovani lettori, è uno dei migliori libri che siano apparsi in Francia fra la prima e la seconda guerra mondiale. Si potrebbe definire il poema della vita montana e della severità del lavoro campestre: un poema senza versi ma pieno di poesia, dove il protagonista è la natura, con i suoi paesaggi sconfinati e smaglianti, mentre i personaggi sono guide amiche, le quali ci accompagnano attraverso un regno da scoprire, anche se tanto comune e familiare, come i nostri paesi alpini.
La vicenda della piccola Mimí, che durante il suo lungo tragitto dalla casa alla scuola si imbatte un giorno in una compagnia inaspettata, non è molto diversa da quella delle mille e mille bambine che ogni giorno percorrono chilometri di strada per recarsi a scuola; ma la disgrazia di Mimí, che le fa preferire l’aiuto di un girovago al durissimo servizio di fattoria, è una storia che pochi conoscono, e che tuttavia si avvera. Forse l’Autrice pensava a storie vere, da lei direttamente conosciute, mentre scriveva l’avventura di Mimí; e forse per questo vi è un po’ di amarezza nella sua voce. Ma vi è anche tanta ammirazione per la natura, che si direbbe fortunata anche la disgrazia, se costringe le persone al rude contatto con gli elementi: sole, pioggia, uragani, brughiere, rupi scoscese e boscaglie. È il caso non solo di Mimí, ma anche e soprattutto di Daniele, il simpatico giramondo che batte le strade in compagnia di un anziano boscaiolo e di un orso ammaestrato, non per necessità, ma per amore di vita libera. Egli ha lasciato la casa (dove torna spesso a visitare la madre), perché in casa gli sembra di soffocare; egli disprezza coloro che si accontentano degli orizzonti limitati, «perché si fanno un’idea meschina della vita»; egli insomma preferisce vivere di espedienti, anziché rinunciare alla natura aperta. Si direbbe un autentico zingaro; ma forse è soltanto un poeta, o un mattacchione, come lo definisce il suo amico più anziano, il quale osserva: «Per fare il mondo ci vuole un po’ di tutto, pazzi e savi; che importa sapere quali sono i pazzi e quali i savi?».
Noi lasciamo l’interrogativo irrisolto e ci accontentiamo, con la piccola Mimí, di assaporare la gioia di una casa e di una tenerezza materna ritrovata, o di poggiare il capo sulla spalla di un amico fidato, che ci assicuri il suo sostegno nelle difficoltà della vita.
FONTE: Introduzione a Marie Colmont, Mimí e il girovago, Edizioni Paoline, Milano 1969