La speranza di tornare a una dimensione più umana, resistendo alla burocrazia e al tecnicismo delle società di massa.
di Franco Ferrarotti
È prevedibile che, anche dopo morto. Herbert Marcuse resterà per qualche tempo ancora un segno di contraddizione, esaltato dagli uni e vilipeso dagli altri. Eppure, con uno sforzo di obiettività, dovrebbe essere già possibile fare un bilancio della sua opera e della sua presenza filosofica e politica in questo ultimo quarto di secolo.
Il punto di partenza della riflessione marcusiana è strettamente hegeliano. Ciò significa che, per Marcuse come per Hegel, la realtà storica e sociale non è un panorama piatto, statico, uniforme come pensavano i realisti ingenui, e non è neppure una serie di trasformazioni fra le quali esistono salti o contraddizioni, come pensavano gli evoluzionisti darwiniani e i socialisti riformisti. La realtà storica e sociale è per Marcuse, come per Hegel, un processo dialettico caratterizzato da rotture, interruzioni, contrapposizioni che possono dare origine a situazioni nuove, secondo lo schema di «tesi-antitesi-sintesi» indefinito e che si rinnova sempre.
Per Hegel, la molla di questo processo era l’«idea» e la sua progressiva, ineluttabile realizzazione sul piano storico. Per Marx, la molla era da ricercarsi nei rapporti materiali tra le persone (e per questa ragione si è detto spesso che Marx ha raddrizzato la dialettica hegeliana che camminava sulla testa, cioè l’idea, rimettendola sui propri piedi, cioè dando il primo posto ai rapporti materiali di vita). Per Marcuse, la molla del processo storico è il «pensiero negativo», che ne spiega il carattere dinamico e il procedere a sbalzi attraverso contraddizioni via via superate e poi di nuovo risorgenti.
Il «pensiero negativo» marcusiano consiste in una capacità che distingue gli esseri umani dagli altri animali: saper dire di no, rifiutarsi alla ripetizione e alla monotonia, non accettare per sempre la situazione esistente, rifiutare l’«autorità dell’eterno ieri», chiedere conto alle tradizioni (non importa quanto illustri) delle loro ragioni, in termini razionali e non solo sentimentali, e cercare di andare oltre le situazioni esistenti, criticarle per superarle. Il pensiero negativo è, quindi, un pensiero critico, «la sola forza effettivamente liberante di cui l’uomo disponga». Quando l’uomo abbandona la sua capacità critica, perché costretto o perché interiormente svuotato e stanco, è già sulla via della alienazione, della mutilazione come essere umano, della sua riduzione da uomo totale, potenzialmente capace di novità e di imprevedibilità, di immaginazione e di scoperte, a uomo intellettualmente e psicologicamente a «una dimensione»: una cosa.
Una volta elaborato il pensiero negativo come pensiero critico, Marcuse lo cala nel vivo della situazione sociale del suo tempo. Attraverso la critica di strutture e di istituzioni sociali precise, il pensiero negativo diventa strumento critico rispetto a problemi specifici, «negazione determinata». Marcuse ci mostra che certe istituzioni, generalmente considerate strutture universali e necessarie per qualsiasi società, corrispondono a bisogni specifici di determinate epoche e sono «vissute» in maniera diversa a seconda dei diversi orientamenti e interessi dei gruppi sociali dominanti.
L’analisi marcusiana si distacca notevolmente da quella dei suoi amici e colleghi della Scuola di Francoforte: non è più la denuncia totale dell’esistente, intrisa di romantico catastrofismo, a parole molto radicale, ma nella pratica moderato, appunto perché volere tutto e subito coincide sostanzialmente con faccettare la situazione così com’è, finisce anzi per confermarla sollevando ondate di paura nella gente comune (smarrimento molto bene amministrato da chi detiene il potere). Le analisi di Marcuse sono, invece, piuttosto precise e circostanziate.
Facciamo un esempio: la famiglia viene considerata una istituzione universale ma l’analisi di Marcuse ci dimostra che, in genere, quando oggi si dice famiglia si ha in mente la famiglia borghese, che è un tipo storicamente determinato di famiglia, la si spaccia per la sola famiglia possibile e, come tale, viene giustificata anche nei suoi aspetti più ovvii di paternalismo, autoritarismo, conformismo. Lo stesso vale per il concetto di società.
Marcuse non si contenta delle formulazioni teoriche. Vuole andare a vedere come stanno veramente le cose. Non sarà mai un marxista ortodosso perché non sarà mai un materialista, ma non si contenta della pura e semplice formulazione idealistica: vuole toccare con mano, esaminare concretamente qual è la situazione di fatto. In questo senso il filosofo Marcuse si fa sociologo. Applica il suo pensiero critico alla società capitalistica più avanzata, quella americana, dove vive gli anni della sua maturità. I risultati sono contenuti nel libro L’uomo a una dimensione; ma per comprendere pienamente la portata della sua analisi bisogna leggere le opere precedenti, che sono anche più importanti, soprattutto Ragione e rivoluzione, Eros e civiltà.
Secondo Marcuse, le libertà democratiche, che avevano un contenuto preciso e un significato autentico nelle prime società democratiche del Sette e Ottocento, si stanno rovesciando nel loro contrario nelle odierne società industriali di massa. Si continua a parlare di diritti civili, di libertà dell’individuo e così via, ma questi diritti e queste libertà stanno scomparendo. Perché? La risposta di Marcuse è chiarissima: perché le odierne società industriali di massa, capitalistiche o collettivistiche, sono programmate e burocratizzate al punto che l’individuo è soltanto un inciampo, una variabile imprevedibile e quindi non inglobabile nel sistema, a meno che non venga reso appiattito e interscambiabile. Questa è la sostanza della tesi di Marcuse.
In apertura de L’uomo a una dimensione il filosofo scrive: «Una confortevole, liscia, ragionevole, democratica mancanza di libertà prevale nella civiltà industriale avanzala quale garanzia di progresso tecnico. Di fatto, cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nella meccanizzazione di servizi socialmente necessari ma penosi, nella concentrazione di imprese individuali in società anonime più efficienti e produttive, nella regolazione della libera concorrenza fra soggetti economici attrezzati in maniera disegnale, nella riduzione delle prerogative e delle sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione delle ricerche sul piano internazionale?».
L’ordine tecnologico, che impone non soltanto la pianificazione della società ma anche l’asservimento delle menti e la manipolazione degli spiriti, diventa così il bersaglio del pensiero critico marcusiano. Il collegamento con la lotta del movimento studentesco e, in generale, con i movimenti giovanili di protesta, è evidente. Il pensiero critico è, in primo luogo, anti-autoritario e intacca in maniera corrosiva tutte le istituzioni, dalla famiglia allo Stato. Non è un attacco indiscriminato e non è neppure una prospettiva totalmente negativa o nichilista, come quella di Theodor W. Adorno, collega e amico di Marcuse. «Marcuse critica le istituzioni consegnateci dall’Ottocento perché intende rifondare la democrazia». È questo che va capito, non solo per non fare torto a Marcuse ma anche per comprendere lo scacco del ’68 e le ragioni profonde della sconfitta del movimento studentesco.
Il messaggio di Marcuse è stato accolto nella sua parte di critica radicale con l’ingenua fiducia che la costruzione positiva sarebbe avvenuta automaticamente. Ma a questo punto, quando il pensiero negativo si fa critica a istituzioni specifiche e l’ordine tecnologico diventa il bersaglio principale, viene spontanea la domanda: chi ha interesse ad abbattere l’attuale sistema? Non gli imprenditori che ne traggono profitti: nemmeno gli operai, perché in esso sono cooptati e di esso fanno parte; non i paesi comunisti, perché le burocrazie al potere hanno pervertito e privatizzato gli ideali del socialismo. La risposta di Marcuse è logica e semplice: ad abbattere il sistema tecnologico possono avere interesse solo coloro che non ne fanno parte: gli emarginati socialmente, i discriminati, i negri, i giovani, gli studenti, tutti coloro che non sono ancora «ostaggi della società».
Ecco spiegata l’adesione della contestazione giovanile e studentesca alle tesi di Marcuse, adesione forse troppo entusiastica, tanto appassionata da arrivare ben presto a un esito grottescamente contraddittorio, al quale non sempre Marcuse ha resistito con il vigore desiderato. Di qui il fraintendimento finale, più grave, da parte di alcuni gruppi estremistici: Marcuse come giustificatore della violenza. Ciò è indebito e inaccettabile. Il pensiero di Marcuse resta sempre pensiero, cioè riflessione personale che cerca di convincere e non di vincere, non sostituisce mai la forza del ragionamento con la forza brutale. La violenza e l’intolleranza sono l’interruzione brusca e ingiustificata del dialogo con gli altri.
Al di là di ogni falsificazione più o meno interessata, credo che del pensiero marcusiano resterà in piedi l’ispirazione profonda che lo muove, vale a dire «la preoccupazione per l’individuo», per la sua potenzialità di sviluppo indipendente, personale, l’ansia e il desiderio di garantire le condizioni per il pieno dispiegarsi della sua immaginazione, della sua imprevedibilità, della sua felicità.
Franco Ferrarotti
* * *
PER I MARCUSIANI SI PREPARANO ANNI DURI
I seguaci di Marcuse, che da tempo hanno rinunciato a scendere in piazza per sostenere le idee del filosofo, preferiscono ora discutere sulle riviste di cultura e nelle aule universitarie.
di Romano Giachetti
New York, agosto
Dal 1970 in poi, pochissimi sapevano che il numero 8831 di Cliff Rudge Avenue, la Jolla (San Diego. California), era l’indirizzo di Herbert Marcuse, il «padre della nuova sinistra», il teorico della rivoluzione marxista americana. Molti lo ritenevano finito, scomparso, e sono gli stessi che oggi, all’annuncio della sua morte, dicono: «Le sue idee erano entrate in coma nove anni fa. È stata un’agonia molto lenta». Ma è corretto dire che la filosofia segue il filosofo?
Nel ’71, a la Jolla, Marcuse mi fece una profezia sul futuro della rivoluzione: «Oggi gli studenti non costituiscono un’avanguardia leninista, almeno negli Stati Uniti, perché non hanno dietro di sé un movimento di massa. D’altra parte è solo nei loro ranghi, e in quelli dei neri, che si può parlare di rivoluzione. Suppongo che in altre nazioni la rivoluzione armata prenderà le forme di un terrorismo violento, mentre in America la strategia del movimento creerà istituzioni radicali capaci di lottare contro l’establishment: radio-tv, stampa, centri di studio, tutto ciò che può spezzare il monopolio dei mass media».
Già vecchio, con l’aria mite e solo di tanto in tanto un lampo di dura intelligenza negli occhi, Marcuse emanava il magnetismo di chi sa o pensa di trovarsi al centro della storia. «Piccolo padre» lo chiamava Angela Davis, la più famosa dei suoi discepoli. Ma c’era in lui anche un che di sconsolato, di deluso. «Gli hippies sono la punta avanzata della rivolta», mi disse allora. «Purtroppo devono lottare anche per abbattere la resistenza della classe lavoratrice. Li aspettano anni duri».
Gli anni duri ci sono stati e, mentre hanno visto lo sbandamento generale degli hippies, il monopolio di cui parlava Marcuse non è stato davvero spezzato. Semmai si è rafforzato trasformando in moda uno stile di vita che, all’origine, intendeva abbattere il sistema. Tuttavia sbagliava la destra a chiamarlo «apostolo del caos», sbagliava anche la Pravda che lo definì «falso profeta». La sua profezia della violenza armata in Europa, per esempio, era corretta. E anche in America, sulla scia del suo insegnamento, le cose sembrano dargli ragione.
I radicali, i «figli di Marcuse», i soli che parlano ancora di rivoluzione, si sono asserragliati proprio in quei centri di studio da lui previsti e che non sono più le università ma le riviste di cultura. «Non abbattete le università», diceva Marcuse, attribuendo loro il ruolo di eterni «focolai di agitazioni». Focolai, com’è noto, non lo sono più, ma continuano a partorire una esigua classe di intellettuali che si laureano e vanno subito sulle barricate della macchina da scrivere.
La rivista Sociatist Revolution, che si pubblica ancora a Oakland (cioè nei pressi di Berkeley, dove scoppiarono i primi moti rivoluzionari negli anni sessanta), ha cambiato nome: ora si chiama Socialist Review, ma continua a battersi per quel mitico «uomo nuovo» che era alla base della dottrina marcusiana. Ne supera però il concetto, scendendo dalla visione d’insieme del filosofo all’analisi di ciò che nella sua teoria è sempre stato ritenuto carente: la realtà quotidiana, la società vera con le contraddizioni, i sofismi, le inarrestabili attrattive.
Che il movimento sia entrato in «un periodo più alto, in termini storici», come diceva Marcuse, sembra provarlo anche la rivista Marxist Perspectives, diretta da Eugene Genovese. E potrei portare altri esempi: Praxis, Radical America, Socialtext, Labor History, Radical Scene. Al posto della cellula radicale nel campus universitario, adesso c’è la redazione acquartierata in un rione popolare; invece del fucile mitragliatore e delle bombe molotov, ora è il momento dello studio e del dibattito stampato.
«Si capisce che Marcuse aveva ragione», mi dice da San Francisco uno dei capi del movimento, Frank Bowley. «Ma aveva ragione in maniera ovvia, direi. È come affermare che ci sono lavoratori e datori di lavoro, che c’è il giorno e la notte». «Il suo merito», aggiunge Mark Abernathy, che sta cercando di creare un collettivo di studi nella regione più difficile, il Sud, «è stato quello di aver tradotto in pratica, per noi americani, i concetti di Marx. Naturalmente. una volta appresi bisogna superarli ed è quanto tentiamo di fare».
A differenza dell’impegno intellettuale dei più, alquanto rarefatto e certamente non «di massa», questi possono sembrare discorsi semplicistici forse perché provengono da gente ancora convinta di agganciare l’anello che si ostina a evitare anche l’odore della rivoluzione, l’operaio americano. Come si vede, di Marcuse è rimasto ben poco. I suoi libri si leggono ancora, ma sempre meno. Le sue teorie si discutono, ma come punto di partenza per altri discorsi.
Soltanto in California sopravvivono quattro o cinque cellule marcusiane di giovanissimi che non ebbero modo di «gustare la rivoluzione». Sono cellule armate, ma nessuno sa quando e dove spareranno. Le sorregge forse la convinzione che, almeno in America, la penna dei figli di Marcuse è ancora troppo debole per sostenere il nucleo della sua dottrina.
Romano Giachetti
* * *
Queste le sue opere importanti
Ecco le opere di Herbert Marcuse tradotte in italiano:
«Eros e civiltà», Einaudi, 1964 e 1968.
«Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della “teoria sociale”, Il Mulino, 1966 e 1974.
«L’uomo a una dimensione», Einaudi, 1967.
«La fine dell’utopia», Laterza, 1968.
«Critica della tolleranza», Einaudi, 1968.
«Psicanalisi e politica», Laterza, 1968.
«Critica della società repressiva», Feltrinelli, 1968.
«Soviet Marxism», Guanda, 1968.
«Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965», Einaudi, giugno 1969.
«L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità», La nuova Italia, 1969.
«Saggio sulla liberazione», Einaudi, 1969.
«L’autorità e la famiglia», con Autori Vari, Einaudi, 1970.
«Controrivoluzione e rivolta», Mondadori, 1973.
«Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932», Einaudi, 1975.
«Rivoluzione o riforme?». Un confronto con Karl Popper a cura di Franz Stark, Armando, 1977.
«La dimensione estetica». Mondadori, 1978.
«Conversazione con Marcuse», a cura di Arturo Schwarz, Multhipla, 1978.
Epoca, n. 1505, 11 Agosto 1979