Chi ha diritto di essere pianto: il dolore come costruzione politica

Non tutte le vittime contano allo stesso modo: il dolore è selezionato e raccontato secondo interessi politici. Serve uno sguardo più umano e giusto.

di Alberto Piroddi

C’è un aspetto che accomuna tutte le guerre moderne, ed è il modo in cui vengono raccontate. Non si tratta solo di ciò che accade sul campo – le bombe, le vittime, la distruzione – ma di ciò che viene scelto di mostrare, e ciò che invece si decide di non vedere. Le guerre non si combattono soltanto con le armi: si combattono anche con le parole, con le immagini, con le emozioni guidate da chi ha il potere di decidere che cosa è giusto sentire e per chi. Ed è proprio in questo racconto, in questa gestione del dolore, che oggi si gioca la più spaventosa delle ingiustizie: quella che fa valere certe vite più di altre.

Nei giorni scorsi, il bombardamento russo sulla città ucraina di Sumy, avvenuto proprio nella Domenica delle Palme, ha colpito nel profondo l’Occidente. Non solo per l’orrore delle vittime – che ovviamente merita ogni condanna – ma per il modo in cui l’evento è stato immediatamente inserito in un quadro emotivo preciso: “attacco barbaro”, “vile strage di civili innocenti”, “giorno sacro profanato”. Parole forti, dichiarazioni ufficiali, prime pagine dei giornali, trasmissioni televisive, appelli morali. Tutto è avvenuto come in un copione già scritto. E chi legge, chi ascolta, è spinto a sentirsi parte di una comunità colpita, indignata, unita nel rifiuto del male.

Tutto giusto. Ma allora perché questo stesso slancio non si attiva quando, negli stessi giorni, a Gaza viene distrutto l’ultimo ospedale funzionante? Perché non ci sono titoli, né lacrime, né “giorni sacri” da profanare, per i bambini palestinesi? Perché il loro dolore passa in secondo piano, se non sparisce del tutto?

La verità è che non ci troviamo di fronte a una semplice differenza di trattamento. Ci troviamo di fronte a un sistema in cui alcune vittime vengono riconosciute, altre no. Alcune tragedie vengono immediatamente rese pubbliche, collettive, condivise. Altre restano mute, come se accadessero in un’altra dimensione, in un’umanità che ci è estranea. E questo non avviene per caso. È il risultato di una precisa costruzione politica del dolore.

Ogni volta che un leader pronuncia parole come “barbaro”, “atroce”, “orribile” – e lo fa solo quando a colpire è un nemico geopolitico – ci sta insegnando non solo a odiare, ma anche a sentire in modo selettivo. Ci abitua a pensare che certi morti siano davvero morti, certi bambini davvero bambini, certi ospedali davvero sacri. E che altri no. Che altri – magari perché nati nel posto sbagliato, nella religione sbagliata, sotto il governo sbagliato – siano semplicemente parte del rumore di fondo della storia.

È questo il punto più profondo. Il dolore, nella nostra epoca, non è mai solo dolore. Diventa un fatto pubblico solo quando è riconosciuto da un certo tipo di racconto. E quel racconto – fatto di immagini, dichiarazioni, silenzi – non è mai neutro. Ci dice chi siamo noi, e chi sono gli altri. Chi merita una veglia, una commemorazione, un’azione diplomatica. E chi invece può essere ignorato, oppure giustificato come “effetto collaterale”.

Ci sono due misure, sempre. Una per i nemici, l’altra per gli alleati. Una per chi viene definito “resistente”, l’altra per chi viene chiamato “terrorista”. Una per la strage visibile, l’altra per la strage oscurata. È una diseguaglianza che non si basa sui fatti, ma sulla posizione di chi racconta, sulla sua capacità di definire cosa è giusto e cosa è sbagliato, chi è umano e chi no.

Un esempio fra tutti: il rapporto “Breaking the Silence”, in cui alcuni soldati israeliani raccontano ciò che hanno visto e fatto a Gaza. Non parlano nemici ideologici, ma uomini che hanno partecipato alle operazioni. E raccontano quartieri ridotti a zone di sterminio sistematico, ordini ricevuti di radere al suolo tutto ciò che si trovava entro un certo perimetro: case, scuole, moschee, cimiteri. Parlano di civili che tornavano tra le macerie per cercare piante commestibili, e venivano uccisi. Parlano di colleghi che sparavano senza motivo, per abitudine, per noia, per frustrazione. Parlano di una routine del massacro.

Eppure, queste testimonianze non bucano il muro del racconto ufficiale. Non diventano titoli. Non entrano nei comunicati dei leader. Restano come sussurri, come se fossero voci inascoltabili. Perché infrangono la narrazione stabilita: quella secondo cui Israele è, sempre e comunque, una democrazia che agisce per legittima difesa. Anche quando, nei fatti, conduce operazioni che negano ogni idea di proporzionalità e di diritto.

Ma il punto, lo ripeto, non è difendere Hamas o attaccare Israele. Il punto è chiedere perché certi crimini fanno rumore e altri no. Perché certe morti scuotono le coscienze e altre no. Perché chi lancia un missile viene definito “mostro” e chi rade al suolo un ospedale viene definito “alleato”.

La risposta è amara, ma necessaria: viviamo dentro una gerarchia globale del valore delle vite. Alcune vite sono nostre, altre sono altrove. Alcune ci commuovono, altre le guardiamo distrattamente. Alcune entrano nei nostri simboli – la Domenica delle Palme, il volto dei bambini, la scuola colpita – altre ne restano fuori. E così, giorno dopo giorno, il mondo si spacca in due categorie: chi può essere pianto, e chi può essere dimenticato.

In questa divisione non c’è soltanto ingiustizia. C’è un pericolo enorme. Perché quando una società impara a ignorare certi dolori, perde la capacità di riconoscere se stessa. Si abitua a un doppio standard che corrompe tutto: la politica, il giornalismo, la scuola, perfino la preghiera. Si abitua a pensare che la civiltà sia una questione di alleanze, e non di umanità.

Non basta più indignarsi per ciò che accade lontano. Dobbiamo interrogarci su ciò che ci viene fatto vedere, e su ciò che ci viene nascosto. Dobbiamo chiederci chi decide i confini del nostro sentire. E perché. Perché ci sono milioni di persone che stanno morendo due volte: la prima sotto le bombe, la seconda nel silenzio.

Non possiamo più accettare che il mondo sia raccontato così. Non possiamo più tollerare che la nostra compassione sia manipolata come uno strumento geopolitico. Se davvero vogliamo vivere in un’epoca giusta, dobbiamo iniziare a guardare senza filtri, senza interessi, senza pregiudizi. Dobbiamo imparare a riconoscere ogni vittima come parte della nostra comunità umana, ogni bambino come nostro figlio, ogni madre in fuga come nostra sorella.

Solo allora – e non prima – potremo dire di avere davvero compreso cosa significa pace. Perché la pace non comincia dai trattati, ma dal modo in cui impariamo a guardare il dolore degli altri. E decidiamo, finalmente, che tutte le vite valgono. Tutte.

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