Dicono che sia un’elezione come le altre, con le solite questioni su scuole, sanità e indipendenza. Dicono. Perché la realtà è un’altra: martedì, in Groenlandia, si vota in quello che potrebbe essere il passaggio più cruciale della sua storia. Il mondo osserva con un’attenzione senza precedenti, e il motivo è uno solo: Donald Trump.
Sì, proprio lui, quello che nel 2019 voleva comprare la Groenlandia come se fosse un casinò di Atlantic City e che oggi, nel suo secondo mandato, ha deciso che la prenderà comunque, “in un modo o nell’altro”. Lo ha detto, ridendo, davanti al Congresso, tra qualche risata di circostanza e un silenzio imbarazzato.
Per gli Stati Uniti, l’isola artica è una miniera d’oro. O meglio, di uranio, terre rare, e una posizione strategica invidiabile nel nuovo scacchiere globale. Per la Danimarca, è un pezzo di sovranità sempre più difficile da giustificare: un’ex colonia “autonoma” dal 1953, che ancora oggi non controlla né la propria politica estera né la sicurezza. E poi ci sono i groenlandesi, divisi tra chi sogna l’indipendenza e chi, pragmaticamente, pensa che valga la pena trattare con Washington.
Il premier Múte Egede, leader degli indipendentisti di sinistra di Inuit Ataqatigiit, guida una coalizione che rischia di vacillare sotto la pressione di Naleraq, il partito nazionalista che vorrebbe accelerare la rottura con Copenaghen e, magari, aprire direttamente ai dollari americani. I sondaggi? Praticamente inesistenti, quindi nessuno si azzarda a fare previsioni.
Ma questa campagna elettorale ha già stabilito un record: per la prima volta, i politici girano con la sicurezza al seguito. Il clima è tesissimo, anche perché l’elettorato è furioso dopo le rivelazioni di un documentario della tv danese DR, che ha scoperchiato l’ennesimo scandalo coloniale: tra il 1854 e il 1987, la Danimarca avrebbe incassato fino a 400 miliardi di corone (circa 45 miliardi di sterline) sfruttando una miniera di criolite groenlandese. Un’enormità, che i soliti “esperti” hanno tentato di ridimensionare, parlando di “costi non calcolati”. Ma in Groenlandia la notizia è diventata un simbolo dell’ingiustizia subita.
E non è l’unico scheletro che esce dall’armadio coloniale: tra il 1966 e il 1970, il governo danese ha impiantato contraccettivi a 4.500 donne e ragazze inuit senza il loro consenso. Egede ha definito la vicenda per quello che è: un genocidio. Poi c’è la vergogna dei test di “competenza genitoriale”, che per anni hanno strappato bambini groenlandesi alle loro famiglie. Dopo le proteste, la Danimarca ha dovuto fare marcia indietro, ma il danno è fatto.
Il bello è che mentre a Copenaghen il ritorno di fiamma trumpiano ha mandato in tilt il governo, a Nuuk la reazione è stata ben diversa. Più che preoccupazione, c’è stato un misto di incredulità e pragmatismo. Rasmus Leander Nielsen, esperto di politica estera all’università locale, lo spiega così: “C’è uno scontro tra due narrazioni: la politica quotidiana e la geopolitica di Trump”.
Che poi, indipendenza o meno, il percorso sarà lungo. Anche se vincessero gli indipendentisti, un referendum non porterebbe alla secessione immediata. “Ci vorrebbe almeno un decennio”, dice Nielsen, citando il modello Brexit: prima il voto, poi anni di trattative. Intanto, però, il momento è perfetto per battere cassa con la Danimarca e ottenere una maggiore autonomia dentro il regno.
Aki-Matilda Høegh-Dam, politica groenlandese che ha lasciato i socialdemocratici di Siumut per correre con Naleraq, avverte: il mondo non aspetterà che la Groenlandia decida il suo futuro. “Spero che la gente voti chi ha competenza in politica estera, perché l’interesse dall’esterno è enorme”, dice.
E non è solo interesse mediatico. Gli investitori americani sono già alla porta. Drew Horn, ex membro dell’amministrazione Trump e ora a capo di GreenMet, un’azienda mineraria di Washington, parla di “decine di miliardi di dollari pronti a essere investiti subito”.
Tom Dans, ex commissario artico di Trump e investitore, è entusiasta: “Non è roba da speculazione veloce, ma un’occasione unica”. E poi, aggiunge con un certo stupore: “Parliamo di viaggi su Marte, ma Nuuk è a tre ore di volo da New York…”.
Ecco, mentre i groenlandesi discutono del loro futuro, a Washington c’è già chi pensa agli affari.