Siria, il caos dopo Assad: i fantasmi del regime e il bagno di sangue

Siria, il caos dopo Assad: i fantasmi del regime e il bagno di sangue

Centinaia di persone sono state uccise e i residenti delle province costiere della Siria hanno paura di uscire di casa.

L’operazione è ufficialmente conclusa. Così almeno dice il governo siriano, che dopo quattro giorni di scontri annuncia la fine delle operazioni militari nelle province costiere di Latakia e Tartous. La realtà è che nelle strade ci sono ancora cadaveri, la paura ha svuotato i quartieri e l’incubo di un nuovo bagno di sangue è tutt’altro che archiviato. Perché l’ultimo sussulto dei fedelissimi di Bashar al-Assad, a tre mesi dalla caduta del suo regime, ha lasciato una scia di morte che parla da sola.

I numeri ufficiali ancora ballano, come sempre in questi casi. Il Syrian Observatory for Human Rights (SOHR) parla di almeno 1.311 morti in quattro giorni, tra cui 830 civili, 230 membri delle forze di sicurezza e circa 250 combattenti armati. Queste cifre non sono al momento verificabili, potrebbero essere di più, o anche di meno, ma di certo è stata una carneficina.

Il governo ha schierato i suoi uomini lungo tutta la fascia costiera, da Latakia a Banias, da Tartous a Jableh, per annientare quelli che definisce “residui del regime”. Tradotto, significa ex militari e paramilitari fedeli ad Assad che hanno deciso di non deporre le armi.

Il 6 marzo, un gruppo di armati pro-Assad ha teso un’imboscata alle forze di sicurezza nei dintorni di Latakia. Risultato: almeno 16 agenti morti sul colpo, tra esercito e ministero della Difesa. Un episodio che ha dato il via a una caccia all’uomo da parte del nuovo governo siriano, ma che in realtà non è stato un fulmine a ciel sereno.

Le imboscate e gli attacchi ai nuovi padroni di Damasco sono iniziati già nei mesi scorsi, da quando il regime è caduto. Perché se qualcuno si era illuso che l’apparato di potere di Assad si sarebbe dissolto senza combattere, ha fatto i conti senza l’oste.

Per capire perché il focolaio si sia acceso proprio qui, bisogna guardare la mappa e la storia. Latakia e Tartous sono il cuore della comunità alawita, la stessa da cui proviene la dinastia Assad. Per decenni, questa minoranza ha governato il paese con il pugno di ferro, riempiendo esercito, servizi segreti e apparati dello Stato. E adesso, con il vecchio ordine crollato, la vendetta è nell’aria.

Chi temeva ritorsioni contro gli alawiti oggi ha davanti un bivio: credere che gli ex fedelissimi di Assad stiano combattendo per proteggere la comunità, o accettare l’idea che questa guerra sia solo il disperato tentativo di un pezzo di regime di non finire nel dimenticatoio.

Da una parte, l’esercito governativo e le forze di sicurezza fedeli al nuovo presidente Ahmed al-Sharaa. Dall’altra, un’armata eterogenea di ribelli filo-Assad, ex ufficiali e gruppi armati che si sono autoproclamati difensori della patria. Tra i leader, spicca il nome di Muqdad Fteiha, ex ufficiale della Guardia Repubblicana, che su Telegram e altri social diffonde proclami infuocati contro il nuovo ordine siriano.

Al suo fianco, l’ex generale Ghiath Suleiman Dalla, che ha annunciato la nascita del “Consiglio Militare per la Liberazione della Siria”. Liberazione da chi? Ufficialmente dai “terroristi occupanti”, in realtà dal nuovo governo che non sembra intenzionato a concedere nulla ai nostalgici dell’era Assad.

Di fronte all’escalation, il presidente Ahmed al-Sharaa ha provato a rassicurare il paese con una serie di mosse che sanno di compromesso tra pugno di ferro e apertura al dialogo.

Due le misure annunciate domenica: una commissione indipendente di magistrati e avvocati per indagare sugli attacchi e processare i responsabili, e un “Comitato Supremo per la Pace Civile” che dovrebbe tentare di arginare la paura e il senso di abbandono che serpeggia tra la popolazione.

Peccato che, mentre il governo prova a tenere insieme i pezzi di un paese in frantumi, la gente comune è troppo terrorizzata per credere alle rassicurazioni ufficiali.

Nelle strade di Latakia si sente solo il rumore delle sirene e delle scariche di mitra.

“Io non esco nemmeno per aprire le finestre… Qui non c’è sicurezza, non c’è sicurezza per gli alawiti”, racconta un abitante della città, rimasto anonimo per ovvi motivi.

Chi può fugge, chi resta vive chiuso in casa, sperando di non finire nel mirino dell’ennesimo gruppo armato. E intanto, sulla costa siriana, lo spettro di una nuova guerra civile è sempre più concreto.

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