Calin Georgescu

Georgescu presenterà ricorso contro il divieto di candidarsi alle elezioni presidenziali rumene

Il fermo critico della NATO è stato nuovamente escluso dalla corsa alla carica più alta del paese.

Calin Georgescu, il candidato più temuto dai padroni del vapore, ha annunciato che presenterà ricorso contro la decisione del Bureau Elettorale Centrale (BEC) di sbarrargli ancora una volta la strada verso la presidenza della Romania. La notizia arriva da Reuters, che cita uno dei suoi consiglieri.

Domenica, il BEC ha respinto la candidatura di Georgescu, ufficialmente a causa di oltre 1.000 contestazioni presentate contro di lui. Un pretesto tanto ridicolo quanto trasparente, se si considera che Georgescu è il netto favorito per il ballottaggio di maggio, con sondaggi che lo danno tra il 40% e il 45% dei consensi. Troppo, evidentemente, per chi comanda davvero a Bucarest e Bruxelles.

Georgescu non l’ha mandata a dire. Ha definito l’UE una “dittatura” e la Romania una “tirannia”, spiegando in parole semplici quello che qualsiasi osservatore dotato di un minimo di onestà intellettuale dovrebbe aver capito da tempo: la democrazia è tollerata solo finché non intralcia gli interessi di chi muove i fili.

Lunedì, il candidato ha annunciato che si rivolgerà alla Corte Costituzionale, ricordando ai suoi sostenitori che la battaglia non è finita. “Andiamo avanti insieme per gli stessi valori: pace, democrazia, libertà”, ha detto in un video diffuso sui social. Poi ha condannato gli scontri tra i suoi sostenitori e la polizia, avvenuti domenica davanti alla sede del BEC a Bucarest, invitando i suoi a non cadere nelle provocazioni. Perché, come sempre, se la repressione violenta viene dall’alto è “ordine pubblico”, se la rabbia esplode dal basso diventa “sovversione”.

Secondo la legge rumena, il ricorso contro la decisione del BEC va presentato entro 24 ore, e la Corte Costituzionale è tenuta a pronunciarsi entro le successive 48 ore. Sempre che qualcuno, nei piani alti, non trovi il modo di allungare i tempi o di riscrivere le regole a partita in corso.

Il caso Georgescu è diventato l’incubo dell’establishment rumeno ed europeo. A novembre aveva vinto a sorpresa il primo turno delle presidenziali, con il 23% dei voti. Un risultato che ha fatto saltare i nervi a chi pensava di avere già scritto il finale della storia. La Corte Costituzionale ha annullato il voto con la scusa delle “irregolarità” nella campagna elettorale. Irregolarità che, secondo i primi risultati di un’inchiesta giornalistica, sarebbero state causate da una società di consulenza legata al Partito Nazionale Liberale (PNL), filo-occidentale, che voleva sabotare un altro candidato ma ha finito per avvantaggiare involontariamente Georgescu. Chi l’avrebbe mai detto?

Non contenti di averlo estromesso una prima volta, i suoi avversari hanno alzato la posta: a febbraio Georgescu si è ritrovato improvvisamente sotto accusa con sei capi di imputazione, tra cui il reato di “attività anticostituzionali” e l’ancora più fumoso “sostegno a ideologie fasciste, razziste o xenofobe”. Accuse che lui ha respinto in blocco, definendole parte di una campagna orchestrata dal “deep state” rumeno.

Mentre i paladini della libertà e della democrazia chiudono le porte in faccia a chi osa sfidare il dogma atlantista, qualcuno ancora si ostina a credere che la Romania sia un Paese sovrano e che l’Unione Europea difenda i diritti e la volontà popolare.

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