Macron, l’atomica e il teatro dell’assurdo

Macron esalta l'atomica, la Polonia vuole testate, ma la vera sicurezza sta nella diplomazia, non in una corsa agli armamenti che arricchisce solo l’industria bellica.

Avete presente quando si gioca a Risiko e il più furbo al tavolo, quello che sta con le truppe ben piantate in Kamchatka, tira fuori la sua strategia geniale? “Io ho tre carri armati, tu ne hai due, quindi vinco io.” Ecco, il discorso di Emmanuel Macron sulle armi nucleari sembra più o meno così. Solo che al posto dei carri armati ci sono le testate atomiche e al posto del tabellone di cartone ci sono i destini dell’umanità.

Macron, sempre più impegnato a far finta di essere un leader globale, ha voluto ribadire che la Francia possiede 290 testate nucleari, il che – tradotto dal macronese – dovrebbe significare che Parigi conta qualcosa nello scacchiere internazionale. Certo, 290 testate sono comunque meglio di zero, ma il confronto con le 7.000 testate tra Russia e Stati Uniti rende tutto un po’ ridicolo. È come se uno con un coltellino svizzero volesse sedersi al tavolo dei macellai e vantarsi del suo arsenale.

Dobbiamo essere chiari: la Francia non è una superpotenza, e per quanto Macron si sforzi di atteggiarsi a De Gaulle 2.0, la realtà è che Parigi è un pezzo di un puzzle molto più grande. La deterrenza nucleare, quella vera, la decidono Mosca e Washington, non Parigi. E se qualcuno ha ancora dubbi, basterebbe chiedersi cosa succederebbe se la Francia provasse a usare una sola di quelle 290 testate: sarebbe l’equivalente geopolitico di una zanzara che punge un elefante. L’elefante, per capirci, è armato fino ai denti e risponde con qualche migliaio di missili termonucleari.

Poi c’è la Polonia, che ultimamente sembra volersi iscrivere al club atomico. Il primo ministro Donald Tusk ha dichiarato che Varsavia dovrebbe dotarsi di armi nucleari per difendersi. Come no, perché ovviamente la stabilità del pianeta dipendeva dal fatto che anche la Polonia avesse il suo pulsantone rosso. L’idea che più armi nucleari equivalgano a più sicurezza è una perversione logica che neanche Orwell nei suoi momenti peggiori avrebbe concepito. Durante la Guerra Fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica hanno capito che aumentare all’infinito gli arsenali nucleari non faceva altro che avvicinare il giorno in cui qualcuno, per sbaglio o per follia, avrebbe premuto il pulsante. Ma oggi, siccome la lezione evidentemente non è bastata, rieccoci con leader che parlano di armi nucleari come se fossero pacchetti di figurine Panini.

Qui arriviamo al cuore della questione: la diplomazia. Parola ormai quasi scomparsa dal vocabolario dei governi occidentali, sostituita da concetti molto più moderni come “deterrenza”, “sanzioni” e “escalation controllata” (che è un po’ come dire “caduta controllata dal quinto piano”). Eppure, anche i più guerrafondai dovrebbero ricordarsi che ogni guerra, anche quelle più devastanti, prima o poi finisce con un negoziato. La Seconda guerra mondiale è finita con i trattati di pace. La Guerra Fredda è finita con trattati di disarmo e distensione. Ma oggi siamo così intelligenti che preferiamo giocare alla roulette nucleare invece di sederci a un tavolo.

Il problema, dice qualcuno, è che con Putin non si può negoziare. Certo, perché quando c’era Breznev negli anni ’70, o Stalin negli anni ’40, erano tutti dei simpaticoni con cui giocare a carte. Eppure, nonostante il terrore reciproco, Stati Uniti e Unione Sovietica hanno trovato il modo di parlarsi e firmare trattati che hanno impedito di trasformare il pianeta in un deserto radioattivo. Oggi, invece, ci raccontano che la diplomazia è impossibile e che l’unica soluzione è armarsi fino ai denti, spendere miliardi in testate nucleari e sperare che nessuno perda la pazienza.

Poi c’è l’altro grande tema: i soldi. Perché tutto questo bel giocattolino atomico non è gratis. Mentre gli ospedali chiudono, le scuole cadono a pezzi e l’inflazione devasta le famiglie, ci sono governi pronti a firmare assegni in bianco per arsenali nucleari che – si spera – non verranno mai usati. Ma se qualcuno si chiede dove finiscano le risorse pubbliche, la risposta è semplice: finiscono nelle tasche dell’industria bellica, che da decenni lucra sulle guerre vere e su quelle immaginarie.

E poi c’è Trump, che ha il suo piano geniale per la pace: un accordo “sulla parola” con Putin. Perché si sa, quando Trump stringe la mano a qualcuno, tutto va a posto. Non servono trattati, non servono garanzie, basta una pacca sulla spalla e un “te lo giuro” tra leader. Funziona così, no? Certo, come no.

Alla fine, la vera domanda è una sola: vogliamo davvero continuare a vivere in un mondo in cui la pace dipende dall’equilibrio tra arsenali nucleari? O vogliamo riscoprire il concetto rivoluzionario che forse, invece di contare quante testate nucleari abbiamo, dovremmo contare quante scuole, ospedali e fabbriche costruiamo?

La risposta, per ora, sembra scontata. Continueremo a farci governare da gente che gioca alla guerra come se fosse un videogioco, sperando che nessuno premi il tasto sbagliato. Perché, si sa, la storia non insegna niente. E se insegna, noi facciamo finta di non ascoltare.

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