di Alberto Piroddi
Pare che in Italia il problema della giustizia sia che il codice penale è troppo snello, le norme sono troppo chiare e la giurisprudenza è troppo lineare. C’era proprio bisogno di una nuova legge ad hoc per gli omicidi di donne, come se già non esistessero aggravanti, reati specifici e pene severissime per chi uccide. Eppure, puntuale come la dichiarazione dei redditi, ecco l’ennesima trovata per spacchettare il concetto di cittadino in una serie di micro-identità protette, ognuna con la propria casella penale riservata. Non sei più una persona uccisa, sei una donna uccisa. E allora la legge cambia. Perché? Perché serve costruire un sistema di caste vittimarie, in cui i diritti e le tutele si assegnano in base al gruppo di appartenenza e non al semplice fatto di essere un essere umano titolare di diritti.
E così nasce il “femminicidio”. Non un’aggravante, non una modifica alle norme esistenti, ma un reato a sé, un articolo nuovo fiammante nel codice penale, il 577-bis. Con una formulazione che è un capolavoro di ambiguità: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna… è punito con l’ergastolo”. Perfetto. Quindi ora, per decidere la pena, i tribunali dovranno scavare nell’intenzione dell’assassino, cercare di capire se l’ha uccisa perché donna o per altri motivi. La domanda è: a chi giova questa distorsione?
Non certo alle donne, che già oggi sono tutelate dalla legge come qualsiasi altro cittadino. Non certo alla giustizia, che si complica ulteriormente la vita con un criterio soggettivo e ideologico. Giova, invece, alla solita politica dei diritti identitari, alla cultura anglosassone delle minoranze contrapposte, alla strategia di chi vuole una società sempre più divisa in categorie rigide, in lobby concorrenti, dove l’individuo smette di essere tale e diventa solo una variabile nel calcolo del potere di gruppo.
È lo stesso principio che vediamo applicato ovunque: nel linguaggio, nella scuola, nella comunicazione istituzionale. Si frammenta il tessuto sociale in compartimenti separati e si rende impossibile una coscienza collettiva. Siamo cittadini? No, siamo “donne”, “uomini”, “migranti”, “LGBTQ+”, “disabili”, “neri”, “bianchi”, “musulmani”, “cristiani”. Il diritto non è più universale, ma differenziato in base all’identità. È la balcanizzazione della società, un processo in cui una comunità viene spezzettata in fazioni contrapposte, esattamente come è accaduto nei Balcani, dove l’impero ottomano prima e le potenze occidentali poi hanno giocato per secoli sulla divisione etnica e religiosa per impedire la nascita di un’identità nazionale unitaria. E così il cittadino italiano smette di essere cittadino e diventa parte di una tribù, di un clan, di una lobby con i suoi interessi specifici, in un sistema costruito apposta per impedire qualsiasi forma di coesione sociale.
Non basta più dire che un omicidio è un omicidio, che va punito e basta. Bisogna introdurre le categorie di odio, discriminazione, percezione, tutte rigorosamente arbitrarie e tutte potenzialmente manipolabili a seconda delle circostanze. E se domani un uomo verrà ucciso dalla compagna per le stesse ragioni? Non importa, non esiste un “maschicidio”, perché il reato è costruito per esistere solo in una direzione.
Nel frattempo, il paese reale è sempre più insicuro, la giustizia sempre più lenta, le carceri sempre più affollate di disperati che non hanno santi in paradiso, mentre chi ha gli avvocati giusti e le conoscenze giuste riesce sempre a cavarsela. Ma no, il problema è che ci mancava il 577-bis.
Ora, se questa legge passa – e purtroppo passerà, perché la politica italiana è ormai abituata a copiare acriticamente i modelli anglosassoni peggiori – resterà solo da vedere se la Consulta avrà un sussulto di lucidità o se dovremo assistere all’ennesima consacrazione dell’ideologia nel diritto.