L’Europa si trova di fronte a un bivio storico, e la direzione che prenderà determinerà il suo ruolo nel mondo nei decenni a venire. La questione non è solamente geopolitica o economica, ma profondamente morale e culturale. È il futuro di un modello di società che è stato a lungo presentato come il più avanzato e giusto, fondato sulla democrazia, la libertà e il rispetto dei diritti umani. Oggi, questo modello è messo in discussione non solo dalle pressioni esterne – che certo esistono e sono molteplici – ma soprattutto dalle contraddizioni interne che lo rendono sempre più fragile.
Guardiamo i fatti con lucidità. L’Unione Europea, nata come un progetto di pace e cooperazione, ha progressivamente ceduto a una logica di potenza che contraddice i suoi stessi principi fondatori. La decisione di investire centinaia di miliardi di euro nell’industria bellica non è soltanto una misura di difesa: è una dichiarazione di intenti, un passo deciso verso una militarizzazione che cambierà per sempre la natura dell’Unione.
“Ma cosa vogliamo difendere esattamente?” dovremmo chiederci. “Quali sono i valori che riteniamo imprescindibili?” Se la risposta è la democrazia, i diritti civili, la libertà di espressione e la giustizia sociale, allora dobbiamo riconoscere che queste stesse conquiste sono oggi in crisi ben prima che i carri armati nemici abbiano varcato i confini. La crescita esponenziale della destra radicale in Europa non è il frutto di un complotto esterno, bensì della progressiva incapacità delle élite politiche di rispondere alle esigenze reali delle popolazioni, dell’aumento delle disuguaglianze e di un sistema economico che lascia indietro fasce sempre più ampie della società.
Se i cittadini europei si spostano verso posizioni autoritarie, se si lasciano sedurre da leader che predicano il nazionalismo più retrivo e il disprezzo per le istituzioni democratiche, non è perché siano stati ingannati da qualche astuta propaganda straniera. È perché si sentono traditi da un sistema che prometteva benessere e sicurezza, ma che invece ha prodotto precarietà, alienazione e paura per il futuro. E davanti a tutto questo, quale risposta offre la classe dirigente europea? Un aumento delle spese militari, il rafforzamento delle frontiere, la criminalizzazione del dissenso, l’adesione alla logica della forza come unica soluzione ai problemi globali.
Trump è il sintomo più eclatante di questa deriva, ma non è il problema principale. È l’epitome di un processo che viene da lontano, il volto più sfacciato di un’ideologia che ha permeato le istituzioni occidentali ben prima che lui entrasse in scena. “Guardate come tratta Zelenski”, si dice. “Guardate il cinismo con cui gioca con le sorti dell’Ucraina, come se fosse una pedina sacrificabile in una partita più grande”. Ma il vero scandalo non è Trump. Il vero scandalo è che l’Europa, con tutte le sue pretese di superiorità morale, non è stata in grado di costruire un’alternativa credibile, non è stata capace di proporre un modello di governance che non sia la mera imitazione delle logiche imperialiste di Washington.
Se la politica internazionale si riduce a una competizione tra chi può accumulare più armamenti e stringere alleanze più aggressive, allora è evidente che chiunque prometta di agire senza scrupoli avrà il vantaggio. Perché votare per un Macron vacillante, quando si può avere un Orban che dice chiaramente di voler difendere “la civiltà cristiana” dall’invasione? Perché fidarsi di un von der Leyen che annuncia miliardi in spese militari, quando un Salvini può garantire la stessa politica con un linguaggio ancora più chiaro e diretto?
Le istituzioni morali su cui si reggeva l’Occidente stanno crollando, e la cosa più inquietante è che chi dovrebbe difenderle sembra aver già accettato la loro scomparsa. La libertà di espressione è diventata un concetto vuoto, brandito selettivamente per giustificare azioni di potere piuttosto che per garantire un dibattito aperto. La giustizia sociale è stata sacrificata sull’altare del mercato, mentre le disuguaglianze crescono senza sosta. La laicità, un tempo pilastro dell’identità europea, viene oggi messa in discussione da movimenti reazionari che vogliono riportare la società indietro di secoli, senza che vi sia una risposta adeguata da parte di chi dovrebbe difendere la modernità.
“Non possiamo condannarci all’irrilevanza”, si dice. Ma l’irrilevanza non è solo il rischio di perdere peso negli equilibri geopolitici globali. L’irrilevanza è anche la perdita di un senso, la trasformazione dell’Europa in un’entità senza principi chiari, pronta a scivolare in qualsiasi direzione dettata dalle contingenze del momento.
Il dilemma di cui parlava Claudio Magris è più attuale che mai: combattere il nichilismo o portarlo fino alle estreme conseguenze. Ma combattere il nichilismo non significa aumentare i bilanci della difesa o erigere nuove barriere. Significa ricostruire un’idea di società in cui la politica non sia solo il dominio della forza e dell’opportunismo, in cui la democrazia non sia una mera finzione per legittimare decisioni prese altrove. Significa avere il coraggio di affrontare le cause profonde della crisi, anziché limitarsi a contenerne gli effetti con misure di emergenza sempre più repressive.
Se l’Europa vuole davvero essere un modello alternativo alle derive autoritarie che avanzano ovunque, deve dimostrarlo con i fatti. Altrimenti, non resterà che accettare l’inevitabile: un continente trasformato in un museo delle proprie glorie passate, mentre il presente gli sfugge di mano.