L’intelligenza artificiale generativa non è solo una questione tecnologica, ma una nuova arena di scontro geopolitico. È il punto di incontro tra capitale, scienza e strategia militare, il terreno su cui si ridefiniscono i rapporti di forza tra Stati Uniti, Cina ed Europa. Un settore dominato da giganti come OpenAI, DeepMind, Nvidia e Huawei, in cui il controllo della potenza di calcolo, della ricerca e della distribuzione è sempre più determinante.
L’errore più diffuso è credere che l’intelligenza artificiale sia soltanto software. In realtà, il cuore della competizione è l’hardware: i chip avanzati, i semiconduttori, le infrastrutture di calcolo che rendono possibile il funzionamento dei modelli. Aziende come Nvidia e AMD progettano i processori più sofisticati, ma la produzione è nelle mani di colossi come TSMC a Taiwan e Samsung in Corea del Sud. Se domani Taiwan venisse invasa o isolata, interi settori dell’economia globale collasserebbero.
La rivalità tra Stati Uniti e Cina è ormai una guerra tecnologica a tutto campo. Gli americani controllano il software, i chip e le grandi infrastrutture cloud, con Microsoft e Google in prima linea. Ma la Cina ha una risorsa inesauribile: milioni di ingegneri e scienziati altamente qualificati. Il successo di DeepSeek AI, il primo modello cinese capace di sfidare le Big Tech occidentali, dimostra che Pechino non intende rimanere indietro. Anzi, sta sviluppando modelli open-source per diffondere il proprio ecosistema tecnologico nel mondo.
Il controllo dell’intelligenza artificiale non riguarda solo il dominio economico, ma ha implicazioni dirette sulla sicurezza nazionale. L’uso militare dell’IA è già una realtà: sistemi di sorveglianza avanzati, droni autonomi, strategie di guerra elettronica. Stati Uniti e Cina stanno costruendo le proprie capacità tecnologiche con investimenti miliardari, mentre l’Europa arranca, incapace di competere su nessun fronte.
L’Europa, infatti, ha perso la corsa prima ancora di iniziare. Non ha una vera industria dei semiconduttori, non ha aziende tecnologiche in grado di sviluppare modelli di IA competitivi, non ha un piano industriale per trattenere i talenti. I capitali ci sarebbero, ma sono immobilizzati in burocrazia e inefficienza. Si parla di “investimenti europei nell’IA”, ma nella realtà si tratta di numeri gonfiati, di fondi riassegnati da altri programmi senza una visione strategica.
L’Italia? Peggio ancora. Pur avendo eccellenti ricercatori, li paga poco e li lascia scappare all’estero. Il nostro tessuto industriale è digitale solo sulla carta, e le imprese non hanno gli strumenti per integrare l’intelligenza artificiale nei propri processi produttivi. Anche quando investiamo in supercomputer, come il Cineca, il loro impatto reale è limitato dall’assenza di un ecosistema che li sfrutti.
L’intelligenza artificiale è il nuovo fronte della competizione globale, e l’unica regola è questa: chi possiede i chip, chi controlla il software e chi attrae i talenti decide il futuro. Gli altri si limiteranno a usare prodotti sviluppati altrove, senza alcun potere sulla direzione che prenderà la tecnologia.