Eccoci di nuovo a commentare l’ennesima trovata geniale di Donald Trump, il palazzinaro prestato alla politica che riesce a far impallidire persino la tradizione protezionista americana con un mix esplosivo di populismo, incompetenza e ossessione per la guerra commerciale. Questa volta, la sua nuova ondata di dazi contro Canada, Messico e Cina ha fatto quello che nemmeno la pandemia o le guerre globali erano riuscite a fare in tempi recenti: cancellare di colpo i guadagni post-elettorali di Wall Street e scatenare il panico tra investitori, governi e consumatori. Eppure, secondo lui e i suoi seguaci, sarebbe tutto parte di un grande piano per «Make America Great Again». Peccato che, come sempre, gli effetti reali di queste trovate siano il contrario della propaganda.
Iniziamo dai numeri, perché quelli non mentono (al contrario dei politici). Dopo l’annuncio dell’imposizione di tariffe al 25% su tutte le importazioni da Canada e Messico e un raddoppio delle tasse sui prodotti cinesi al 20%, i mercati finanziari americani hanno subito un crollo. L’indice S&P 500 ha perso il 1,2% in un solo giorno, spazzando via gli ultimi resti dell’entusiasmo post-elettorale, mentre il Bloomberg Dollar Index ha registrato la più grande caduta in due giorni dall’ultimo insediamento di Trump. Il peso messicano ha iniziato a tremare, il dollaro canadese si è irrigidito, e persino l’euro ha tratto beneficio dalla disfatta del dollaro. In parole povere, gli unici a esultare sono stati gli speculatori che avevano scommesso sul disastro.
E i grandi esperti dell’amministrazione cosa dicono? Il segretario al Commercio Howard Lutnick si lancia in una delle sue interpretazioni degne di un talk show: «Non è una guerra commerciale, è una guerra alla droga». Perché, ovviamente, alzare i dazi sul Canada e sul Messico sarebbe un metodo efficace per combattere il traffico di fentanyl. È un po’ come dire che per ridurre il consumo di zucchero si dovrebbero tassare i frigoriferi. E mentre il governo Trump gioca con queste favole per gonzi, il primo ministro canadese Justin Trudeau, visibilmente infuriato, risponde a tono: «Trump vuole distruggere l’economia del Canada». Il che, a vedere i dati, non è nemmeno così lontano dalla realtà.
Anche i mercati del lavoro e dell’industria stanno già sentendo il colpo. Il settore automobilistico americano dipende per oltre l’80% da componenti provenienti da Messico e Canada. Tradotto: con questi dazi, le case automobilistiche americane si troveranno a dover scegliere tra aumentare i prezzi (con buona pace degli operai e dei consumatori) o ridurre la produzione. E a sentire la reazione di colossi come Ford e General Motors, il futuro non sembra roseo. Tesla, intanto, perde il 3,6% in borsa, perché evidentemente il sogno della «manufacturing renaissance» targata Trump non regge alla prova della realtà.
E il cibo? Già oggi il costo della vita negli Stati Uniti è alle stelle, e il cibo è uno dei settori più colpiti. Con il 40% della frutta e il 50% della verdura che arrivano dal Messico, le nuove tariffe faranno impennare i prezzi nei supermercati. Il CEO di Walmart, Doug McMillon, ha detto chiaramente che sempre più americani stanno finendo i soldi prima della fine del mese. E Trump cosa fa? Mette un’accisa su avocado, peperoni e zucchine, trasformando la spesa in un lusso. Ah, e il settore energetico non è messo meglio: con i dazi sul petrolio canadese, gli analisti prevedono un aumento del prezzo della benzina tra i 20 e i 40 centesimi al gallone nel giro di due settimane. Chissà se i fan del MAGA apprezzeranno il rincaro al distributore.
Intanto, la reazione internazionale non si è fatta attendere. Trudeau ha annunciato rappresaglie immediate: tariffe del 25% sull’energia esportata verso gli Stati Uniti e il blocco dei contratti pubblici per le aziende americane. Il premier dell’Ontario, Doug Ford, minaccia di chiudere i rubinetti dell’energia a Minnesota, Michigan e New York. E poi c’è il Messico, con la presidente Claudia Sheinbaum che annuncia controrappresaglie per domenica. Il che significa che la guerra commerciale potrebbe solo peggiorare, con nuove escalation, nuove tariffe, e un impatto ancora più devastante per l’economia globale.
A questo punto, la domanda è: Trump lo fa per incompetenza o per strategia? Se è incompetenza, allora ci troviamo di fronte a un caso di sindrome da kamikaze politico, in cui si distrugge tutto pur di sembrare forti. Se invece è strategia, allora è ancora peggio: significa che sta deliberatamente affossando l’economia americana per scaricare la colpa su Biden, i democratici, gli immigrati, i cinesi, i messicani e chiunque altro sia utile per la sua retorica da campagna elettorale permanente.
Nel frattempo, il cittadino medio americano si trova a pagare il prezzo più alto, con un’inflazione prevista in rialzo dello 0,6% nei prossimi mesi e un taglio del PIL di almeno un punto percentuale. Il tutto mentre le grandi aziende iniziano a rivedere le loro strategie per evitare di restare intrappolate nel circo trumpiano. Il CEO di Stanley Black & Decker annuncia di voler azzerare le importazioni dalla Cina. Le banche canadesi rivedono al ribasso le loro stime di crescita. Il mondo intero prende le misure di questa nuova ondata di protezionismo becero.
Ma per Trump e i suoi, questa è solo un’altra occasione per dire che stanno «difendendo gli americani». In realtà, li stanno solo dissanguando.