L’Europa si sveglia sempre tardi, quando ormai il danno è fatto e la partita è quasi persa. Per due anni ha seguito Washington in una guerra che non sapeva come vincere, senza un piano a lungo termine, senza una strategia che non fosse quella di sperare in un miracolo sul campo di battaglia. Ora che gli americani hanno voltato pagina e Trump ha fatto capire chiaramente che l’Ucraina non è più un loro problema, i leader europei si guardano spaesati e si domandano: e adesso?
Keir Starmer e il resto della classe dirigente europea stanno cercando di raccogliere i cocci e di costruire una sorta di coalizione militare che possa mantenere un minimo di pressione su Putin e impedire a Trump di vendere Zelensky al miglior offerente. “L’Europa deve fare il grosso del lavoro, ma per sostenere la pace sul nostro continente e per riuscirci, questo sforzo deve avere un forte appoggio degli Stati Uniti”, ha detto Starmer, quasi supplicando Trump di non mollare del tutto il fronte occidentale. Il problema è che gli americani hanno già fatto capire che non vogliono più mettere soldi e armi in un conflitto che non ritengono più prioritario. E quando il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz dice che serve “un leader che possa trattare con noi e con i russi per chiudere la guerra”, il messaggio è chiaro: per Washington, Zelensky è diventato un ostacolo e la sua permanenza al potere è tutto tranne che scontata.
La tensione tra Trump e Zelensky è esplosa nella famigerata riunione alla Casa Bianca, dove il presidente ucraino ha osato ricordare che Putin non è un uomo di parola e che nessun accordo con il Cremlino può essere preso per buono sulla fiducia. Apriti cielo. JD Vance, il falco trumpiano che ha preso il controllo della politica estera americana, lo ha liquidato con l’aria di chi si è stancato di sentire sempre la stessa litania. Trump, fedele al suo personaggio, ha rincarato la dose facendo capire che per lui l’Ucraina è diventata un peso.
L’Europa, quindi, è stretta in una morsa. Da un lato, vuole ancora sostenere l’Ucraina, o almeno dare l’impressione di farlo, per non perdere definitivamente la faccia. Dall’altro, sa benissimo che senza il supporto degli Stati Uniti qualsiasi tentativo di tenere in piedi un fronte anti-russo è destinato a fallire. Gli europei possono parlare di coalizioni militari quanto vogliono, ma chi fornirà davvero uomini e mezzi? Chi accetterà di schierare truppe sul terreno ucraino con il rischio di uno scontro diretto con la Russia? Macron e Scholz possono fare tutte le conferenze stampa che vogliono, ma sanno benissimo che i loro elettori non vogliono una guerra lunga e costosa, soprattutto con le economie europee che arrancano e le proteste sociali che montano.
E poi c’è il nodo del denaro. L’Unione Europea ha promesso di aumentare le spese militari, ma a Bruxelles ancora si discute su come aggirare le regole di bilancio per finanziare il riarmo senza far saltare i conti pubblici. Ursula von der Leyen ha promesso un piano, i tedeschi sembrano disposti a rivedere il dogma del rigore fiscale, i polacchi chiedono una risposta forte per dimostrare a Putin che l’Europa non si piega. Ma i tempi della politica europea non sono quelli del campo di battaglia.
Intanto, Zelensky prova a rimettere insieme i pezzi e a ricucire il rapporto con Washington. Starmer è convinto di averlo convinto a rilanciare l’accordo sugli investimenti americani nelle risorse minerarie ucraine, quello che si è arenato nel disastroso vertice alla Casa Bianca. “È l’unica carta che abbiamo”, ha detto Peter Mandelson, ambasciatore britannico a Washington. In altre parole: l’unico modo per convincere gli Stati Uniti a rimanere coinvolti è fargli capire che l’Ucraina non è solo un costo, ma anche un affare.
Il problema, però, è che Trump non è un uomo d’affari qualunque. Non ragiona come Biden o come i burocrati di Bruxelles. Lui vuole risultati immediati, soluzioni rapide e, soprattutto, non vuole mettersi contro il suo elettorato. E il suo elettorato, oggi, è molto più interessato a tagliare i fondi per l’Ucraina e a concentrarsi sulla Cina e sul Medio Oriente piuttosto che a salvare Zelensky.
Quindi, in definitiva, la domanda è una sola: quanto tempo ha ancora l’Europa prima che Trump sigli un accordo con Putin sopra la testa di tutti? Perché di questo si tratta. Se l’Europa non riesce a mettere in piedi un piano concreto, e in fretta, rischia di trovarsi fuori dai giochi.
E la pace? Quale pace? Quella decisa a Mosca e Washington, con l’Europa spettatrice non pagante? O quella che Zelensky può ancora provare a negoziare prima che qualcuno a Washington decida che è arrivato il momento di trovare un nuovo leader a Kyiv?