Oscar 2025: la rivoluzione indie, il trionfo di Anora e le solite ipocrisie hollywoodiane

Se il cinema è lo specchio della società, gli Oscar di quest’anno hanno riflesso un’immagine piuttosto chiara: il trionfo del cinema indipendente, la progressiva disfatta delle major e l’immancabile dose di ipocrisia politica condita da discorsi edificanti e retorica da salotto progressista.

di Alberto Piroddi

Se il cinema è lo specchio della società, gli Oscar di quest’anno hanno riflesso un’immagine piuttosto chiara: il trionfo del cinema indipendente, la progressiva disfatta delle major e l’immancabile dose di ipocrisia politica condita da discorsi edificanti e retorica da salotto progressista.

Il grande vincitore è Anora, una commedia low-budget di Sean Baker che ha stravolto i pronostici portandosi a casa cinque statuette, tra cui miglior film, miglior regia e miglior attrice per Mikey Madison. Un film costato sei milioni di dollari, che racconta la storia di una sex worker che sposa il figlio di un oligarca russo e che, tra ironia e dramma, ha conquistato l’Academy e il pubblico. Il regista ha dedicato la vittoria alla comunità delle lavoratrici del sesso: “Hanno condiviso le loro storie, le loro esperienze di vita. La mia più profonda ammirazione va a loro”. Ecco, applausi, commozione e standing ovation. Poi, una volta finita la cerimonia, tutto torna come prima.

Conan O’Brien, primo presentatore in decenni a non essere un clone di Jimmy Kimmel, ha ironizzato sul momento storico: “Immagino che agli americani piaccia vedere qualcuno finalmente resistere a un potente russo”. La battuta ha fatto ridere l’Academy e i milionari in sala, mentre in Ucraina le bombe continuano a cadere e la Casa Bianca ha appena messo alla porta Zelensky. Ma questo è lo show business: un’industria che si autocelebra mentre il mondo brucia.

Adrien Brody ha vinto il suo secondo Oscar per The Brutalist, un dramma postbellico che non ha avuto la stessa risonanza mediatica di altri contendenti, ma che ha confermato l’attore come una delle presenze più solide del cinema americano. Il suo discorso, però, è stato interrotto dalla musica perché troppo lungo. Lui ha risposto secco: “Non è il mio primo rodeo”, costringendo la produzione a lasciarlo terminare. Ha poi concluso con un auspicio: “Prego per un mondo più sano, più felice e più inclusivo”. Il solito mantra hollywoodiano, recitato come un dovere contrattuale.

Il vero scossone politico della serata è arrivato con il premio al miglior documentario, assegnato a No Other Land, un film realizzato da un collettivo israelo-palestinese sulla violenza e gli sgomberi in Cisgiordania. Basel Adra, il regista palestinese, ha dichiarato che servono “azioni concrete per fermare l’ingiustizia e la pulizia etnica del popolo palestinese”. L’israeliano Yuval Abraham ha aggiunto: “Non vedete che siamo intrecciati? Il mio popolo sarà davvero al sicuro solo quando il popolo di Basel sarà davvero libero”. Un messaggio chiaro, che ha spaccato la sala tra chi applaudiva con convinzione e chi lo faceva con il solito imbarazzo dell’élite liberal, sempre pronta a sostenere le giuste cause purché non disturbino troppo i finanziatori dell’industria.

Il grande sconfitto della serata è stato Conclave, thriller sulla politica vaticana che era considerato il rivale più temibile di Anora ma che è stato relegato al premio per la sceneggiatura adattata. Anche The Substance, l’horror con Demi Moore, ha visto svanire il sogno di miglior attrice, premio andato alla giovane Madison, e si è dovuto accontentare del trucco e parrucco.

Per il miglior film internazionale, vittoria a sorpresa per il Brasile con I’m Still Here, battendo Emilia Pérez, il musical di Netflix che aveva ottenuto il record di 13 nomination ma che ha dovuto accontentarsi di due premi minori. La sua protagonista, Karla Sofia Gascón, prima attrice transgender candidata all’Oscar, è rimasta al centro di una polemica per alcuni vecchi tweet omofobi e transfobici. Netflix ha deciso di non prendere posizione, limitandosi a dire che “tutto è sempre stato incentrato sul film”. Il che, in altre parole, significa: fate finta di niente.

In compenso, Kieran Culkin ha continuato il suo dominio nella categoria del miglior attore non protagonista con A Real Pain. Il film, costato appena tre milioni di dollari, ha confermato come gli Oscar di quest’anno abbiano premiato produzioni indipendenti e a basso budget. Un segnale forte contro il dominio degli studios, anche se le grandi produzioni hanno comunque fatto incetta di premi tecnici: Dune: Part Two ha vinto per il sonoro e gli effetti speciali, mentre Wicked si è portato a casa costumi e scenografie.

Il momento nostalgia della serata è stato affidato a Mick Jagger, chiamato a premiare la miglior canzone originale. “Bob Dylan non ha voluto farlo perché ha detto che le migliori canzoni dell’anno erano in A Complete Unknown”, ha scherzato. Poi l’omaggio a Gene Hackman, con Morgan Freeman visibilmente commosso: “Questa settimana il nostro mondo ha perso un gigante, io ho perso un amico”. Un altro momento toccante è stato il tributo a Quincy Jones, introdotto da Whoopi Goldberg e Oprah Winfrey con il solito discorso sull’eccellenza afroamericana.

La serata si è aperta con un’ode a Los Angeles, devastata dai recenti incendi, con spezzoni da La La Land e C’era una volta a Hollywood. Il discorso di O’Brien ha cercato di dare un senso a tutto questo: “Anche di fronte a incendi e politica divisiva, il lavoro continua”. Certo, perché l’importante è lo spettacolo. E Hollywood, nel bene e nel male, è il più grande spettacolo di tutti.

Ma dietro i riflettori e i discorsi commoventi, resta una certezza: l’industria è in crisi. I blockbuster non tirano più come una volta, il cinema indipendente è in ascesa, la guerra tra piattaforme streaming e sala continua a mietere vittime, e il pubblico si fida sempre meno delle prediche morali di attori e registi. L’Academy ha voluto mandare un segnale premiando il talento fuori dagli schemi, ma il sistema non cambia. I soldi continuano a comandare, la politica continua a influenzare, e le ipocrisie restano intatte.

L’anno prossimo, magari, si tornerà a premiare un film di Christopher Nolan con budget da 200 milioni. Oppure no. Ma in fondo, a chi importa? A Hollywood l’unica regola è che lo show deve continuare.

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