C’è una scena, nel film Io sono ancora qui, in cui Eunice Paiva si ritrova di fronte all’ennesima porta chiusa, al silenzio omertoso dello Stato, alla farsa di una giustizia che si piega ai carnefici invece di dar voce alle vittime. Ed è in quel momento che il film tocca una corda profondamente brasiliana, ma altrettanto universale: la politica della dimenticanza, la rimozione sistematica di un passato scomodo, l’assoluzione implicita di crimini che non solo non sono stati puniti, ma nemmeno riconosciuti fino in fondo.
Il Brasile, con la sua dittatura militare durata oltre vent’anni, non ha mai fatto i conti con la propria storia. Un colpo di Stato nel 1964 ha cancellato la democrazia con la scusa di salvarla. E il risultato? 434 morti accertati, migliaia di desaparecidos, un’intera generazione di intellettuali, giornalisti, oppositori politici torturati, assassinati, o ridotti al silenzio. E poi, il colpo di spugna: l’amnistia del 1979, un patto scellerato per sigillare l’orrore senza mai aprire le porte della verità.
Il film di Walter Salles, basato sulla vicenda reale di Rubens Paiva, fa qualcosa che il sistema politico brasiliano ha accuratamente evitato per decenni: riporta alla luce i fantasmi, costringe il Paese a guardarsi allo specchio, a riconoscere le macerie morali su cui ha costruito la sua fragile democrazia. Ed è per questo che Io sono ancora qui ha scosso così profondamente il Brasile. Per la prima volta, milioni di persone hanno visto sullo schermo quello che gli archivi ufficiali hanno cercato di insabbiare. Hanno rivissuto il dolore delle famiglie che non hanno mai potuto seppellire i propri cari, il terrore di chi viveva sotto un regime che non aveva bisogno di processi per giustiziare chiunque fosse considerato un pericolo.
Eppure, nonostante il clamore, nonostante il successo internazionale del film, il presidente Lula ha scelto la strada della prudenza. Ha evitato commemorazioni ufficiali per il sessantesimo anniversario del colpo di Stato, per non “infiammmare” le tensioni politiche. Ha ripristinato la Commissione sulle morti politiche, ma senza finanziamenti adeguati. Come se la giustizia fosse un optional, come se il riconoscimento della verità fosse qualcosa che si può concedere solo quando non disturba troppo gli equilibri di potere.
Nel frattempo, Bolsonaro e i suoi nostalgici della dittatura continuano a vendere la favola della “sicurezza” garantita dai militari. Un ex presidente che difende apertamente i torturatori e che ha persino elogiato il colonnello Brilhante Ustra, il boia di San Paolo, come “un eroe nazionale”. E lo fa in un Paese in cui le caserme portano ancora i nomi di generali golpisti, in cui le famiglie dei desaparecidos sono trattate come fastidi da archiviare, in cui un’intera generazione è cresciuta senza sapere cosa sia realmente successo tra il 1964 e il 1985.
Ecco il vero problema: la dittatura non è mai finita del tutto. Ha solo cambiato forma. Il golpe del 2023, il tentativo fallito di rovesciare Lula attraverso un’insurrezione in stile Capitol Hill, non è stato un caso isolato. È il sintomo di un sistema che non ha mai fatto giustizia, che ha lasciato impuniti i suoi aguzzini, che ha permesso all’esercito di sentirsi ancora oggi l’ultimo arbitro della politica brasiliana.
Il paradosso è che il vero atto di giustizia, nel Brasile del XXI secolo, non arriva dai tribunali, ma dalle sale cinematografiche. Io sono ancora qui ha fatto quello che nessun governo ha osato fare: ha ridato un volto ai desaparecidos, ha trasformato il dolore privato in una memoria collettiva, ha costretto il Paese a ricordare. E nel farlo ha dimostrato che il cinema, a volte, può essere più potente di una sentenza, più efficace di un’inchiesta parlamentare, più coraggioso di un presidente che ha paura di dire le cose come stanno.
Lula e il suo governo hanno ancora tempo per cambiare rotta. Potrebbero abrogare la legge d’amnistia, aprire finalmente i fascicoli segreti della dittatura, dare giustizia ai familiari che aspettano da cinquant’anni una risposta. Ma lo faranno? O continueranno a sperare che il tempo seppellisca anche l’ultimo testimone, che il silenzio vinca ancora una volta sulla verità?
Ivo Herzog, figlio di Vladimir, una delle vittime più celebri della dittatura, lo ha detto chiaramente: “Cosa aspettano? Che muoiano tutti quelli che possono testimoniare?”.
Questa è la domanda che oggi pesa sulla coscienza del Brasile. E, volenti o nolenti, la risposta arriverà. Se non dalla politica, dalla memoria di chi non si rassegna all’oblio.