C’era da aspettarselo. Dopo averlo usato come un cavallo da tiro per anni, Washington ora cerca di scaricare Volodymyr Zelensky con la grazia di un direttore di casting che licenzia una comparsa diventata troppo ingombrante. L’uomo che fino a ieri era il paladino della libertà, l’eroe in mimetica, il Churchill del Dnipro, ora viene descritto come un ostacolo alla pace, un ex fidanzato petulante che non sa voltare pagina. L’America, che lo ha sostenuto con centinaia di miliardi e lo ha reso il volto di una guerra che tutti ormai sanno impossibile da vincere, ora si dice incerta se sia ancora “l’uomo giusto al momento giusto”. Traduzione: sei diventato un problema, quindi levati di torno.
L’uscita pubblica del Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Mike Waltz, non lascia spazio a dubbi. Durante un’intervista alla CNN, ha detto chiaramente che non è chiaro se Zelensky sia pronto “a traghettare l’Ucraina verso la fine della guerra” e che serve un leader che “possa trattare con noi, e alla fine anche con i russi, per porre fine al conflitto”. Poi arriva il carico da undici: se le “motivazioni personali o politiche” di Zelensky dovessero rivelarsi divergenti dall’obiettivo della pace, “avremmo un vero problema tra le mani”.
Cosa è successo? Semplice. Venerdì, durante un incontro burrascoso alla Casa Bianca con Donald Trump e il suo vice J.D. Vance, Zelensky ha osato fare qualcosa di imperdonabile: ha discusso. Ha insistito nel ribadire le ragioni dell’Ucraina, ha contraddetto le versioni americane sui numeri degli aiuti ricevuti, ha respinto l’idea di accettare una pace alle condizioni di Mosca. Insomma, si è comportato come un leader di un paese in guerra, anziché come un dipendente del Dipartimento di Stato.
E questo ha fatto infuriare Washington. Marco Rubio, segretario di Stato dell’amministrazione Trump, ha spiegato che Zelensky “ha trovato ogni occasione per provare a spiegare la posizione ucraina su ogni questione”, come se fosse un fastidio, un’inutile perdita di tempo. Lindsey Graham, il senatore repubblicano che fino a ieri lo osannava come “l’alleato che ho sempre sperato di avere”, ora dice che la sua “condotta è inaccettabile” e che gli ucraini farebbero meglio a trovare un altro leader.
L’America, come sempre, cerca di vendere questo scaricabarile come un atto di saggezza strategica. Il nuovo mantra è che bisogna “porre fine alla guerra” e che per farlo serve un leader disposto a negoziare. Ora, se c’è un termine che Washington ha evitato per due anni come la peste è proprio negoziazione. Chiunque osasse suggerire che la guerra dovesse finire con un compromesso, anziché con una vittoria totale su Mosca, veniva bollato come un filo-russo, un collaborazionista, un burattino di Putin.
Oggi, però, con l’Ucraina in ginocchio e l’Occidente stanco di buttare miliardi in una guerra persa, improvvisamente la “pace” diventa un concetto accettabile. Il problema, però, è che Zelensky non è d’accordo. O meglio, non è d’accordo a svendere il suo paese esattamente come vorrebbe Washington.
Venerdì, durante l’incontro alla Casa Bianca, l’amministrazione Trump si aspettava che Zelensky firmasse un accordo che avrebbe garantito agli Stati Uniti i diritti sulle risorse naturali ucraine in cambio di ulteriori aiuti. Ma qualcosa è andato storto. Il leader ucraino ha opposto resistenza, e la riunione si è trasformata in uno scontro aperto, con il colloquio bruscamente interrotto e l’accordo lasciato senza firma.
E qui si svela il vero nodo della questione: non è la guerra a preoccupare gli Stati Uniti, ma il modo in cui sarà spartito il bottino. Perché Washington non ha mai fatto beneficenza. Gli aiuti a Kiev non sono mai stati un atto di generosità, ma un investimento. Ora che la guerra volge al termine e si tratta di spartire i pezzi dell’Ucraina, gli americani vogliono garanzie. Vogliono sapere chi controllerà le risorse, chi gestirà la ricostruzione, chi avrà voce in capitolo nel futuro del paese. E se Zelensky non offre le giuste rassicurazioni, allora Zelensky non serve più.
Il messaggio di Waltz, Rubio e Graham è chiaro: Zelensky o si allinea o si leva di mezzo. L’America non lo vuole più come leader di un’Ucraina indipendente, ma come amministratore delegato di una colonia. Se non accetta il ruolo, ne troveranno un altro.
Il problema è che il copione è sempre lo stesso. Washington crea un leader, lo incensa, lo arma, lo usa finché fa comodo. Poi, quando diventa ingombrante o troppo autonomo, lo scarica. È successo con Saddam Hussein, con Gheddafi, con Mubarak, con Karzai in Afghanistan. Oggi sta succedendo con Zelensky.
Chi sarà il prossimo? Un tecnocrate ucraino pronto a firmare qualunque accordo gli metteranno sotto il naso? Un ex generale disposto a cedere il paese in cambio di garanzie personali? Qualunque sia la scelta, una cosa è certa: l’Ucraina, per Washington, non è mai stata altro che una pedina. Ora serve un volto nuovo per chiudere la partita. E Zelensky ha fatto il suo tempo.