Febbraio 2020

Gesù e gli Apostoli

di Indro Montanelli GESÙ Fra i cristiani che Nerone fece massacrare nell’anno 64, come responsabili dell’incendio di Roma, c’era anche il loro capo: un certo Pietro, che, condannato alla crocefissione dopo aver visto sua moglie avviarsi alla tortura, chiese di essere appeso con la testa in giù perché non si sentiva di morire nella stessa posizione in cui era morto il suo Signore, Gesù Cristo. Il supplizio si svolse là dove ora sorge il gran tempio che porta il nome del suppliziato. E i carnefici non furono nemmeno sfiorati dal dubbio che la tomba della loro vittima avrebbe fatto da fondamento a un altro Impero, spirituale, destinato a sotterrare quello, secolare e pagano, che aveva pronunciato il verdetto. Pietro era ebreo e veniva dalla Giudea, una delle province più tartassate dal malgoverno imperiale. Due secoli e mezzo prima era riuscita, con miracoli di coraggio e diplomazia, a liberarsi dal dominio persiano e aveva ritrovato, per una settantina d’anni, la sua indipendenza, sotto la guida dei suoi re-sacerdoti da Simone Maccabeo in giù. La loro reggia era il Tempio di Gerusalemme. E qui gli ebrei si asserragliarono per resistere all’invasione di Pompeo, che voleva estendere anche su questa terra il dominio di Roma. Combatterono con la forza della disperazione, ma non vollero rinunziare alla pausa del sabato, che la religione imponeva. Pompeo se ne accorse, e proprio di sabato li attaccò. Dodicimila persone furono massacrate. Il Tempio non venne saccheggiato. Ma la Giudea diventò una provincia romana. Si ribellò pochi anni dopo, pagò il tentativo con la libertà di trentamila cittadini venduti come schiavi, e ritrovò uno sprazzo d’indipendenza sotto un re straniero, Erode, che tentò d’introdurvi la civiltà greca e la sua pagana architettura. Fu a suo modo un grande re, intelligente, crudele e pittoresco, che seppe fare il protetto di Roma senza diventarne il servo e regalò ai suoi sudditi un tempio ancora più bello, ma decorato di quelle immagini che l’austera fede ebraica respinge severamente come peccaminose e contrarie alla Legge. Sotto il suo successore Archelao di nuovo gli ebrei si ribellarono, i romani rimisero a sacco Gerusalemme, ne vendettero come schiavi altri trentamila cittadini; e Augusto, per tagliar corto, fece della Giudea una provincia di seconda classe sotto il governatorato della Siria. Ma poco prima che questa nuova sistemazione fosse decisa, era avvenuto nel paese un piccolo fatto di cui nessuno, lì per lì, si accorse, ma che col tempo doveva rivelarsi di una qualche importanza per le sorti dell’intera umanità: a Betlemme, vicino a Nazareth, era nato Gesù Cristo. Per un paio di secoli l’autenticità di questo episodio è stata revocata in dubbio da una «scuola critica» che voleva negare l’esistenza di Gesù. Ora i dubbi sono caduti. Ne resta, caso mai, uno solo, di secondaria importanza: quello sulla data esatta di questa nascita. Matteo e Luca, per esempio, dicono ch’essa avvenne sotto il regno di Erode, che, secondo il nostro modo di contare, sarebbe morto tre anni prima di Cristo. Altri dice ch’era un giorno di aprile, altri di maggio. La data del 25 dicembre del 753 ab urbe condita fu fissata d’autorità trecentocinquantaquattro anni dopo l’avvenimento, e diventò definitiva. La storia ci serve poco, a rintracciare la giovinezza di Gesù. Essa ci fornisce testimonianze contraddittorie, date incerte, episodi discutibili, e ha ben poco da opporre alla versione che ce ne dànno poeticamente i Vangeli: l’Annunciazione a Maria, la vergine sposa di Giuseppe il falegname, la nascita nella stalla, l’adorazione delle pecore e dei re Magi, la strage degl’innocenti, la fuga in Egitto. La storia ci aiuta soltanto a farci un’idea delle condizioni di quel paese, quando Gesù vi nacque, e delle ispirazioni che vi trovò. Sono gli unici elementi di cui ci si può fidare. La Giudea o Palestina era tutto un fremito patriottico e religioso. Ci vivevano circa due milioni e mezzo di persone, di cui centomila erano addensate in Gerusalemme. Non c’era unità razziale e confessionale. In alcune città anzi la maggioranza era dei gentili, cioè dei non ebrei, specie greci e siriani. La campagna invece era interamente ebraica, composta di contadini e piccoli artigiani poveri, parsimoniosi, industriosi, austeri e pii. Passavano la vita a lavorare, a pregare, a digiunare e ad aspettare il ritorno di Jeovah, il loro Dio che, secondo le Sacre Scritture, le quali costituivano anche la Legge, doveva tornare a salvare il suo popolo e a stabilire sulla terra il Regno del Cielo. Commerciavano poco. Anzi, sembra che fossero del tutto sprovvisti di quel genio speculativo, per cui in seguito diventarono così celebri (e temuti). Il limitato autogoverno che Roma concedeva era esercitato dal Sinedrio, o Consiglio degli Anziani, composto di settantun membri sotto la presidenza di un alto sacerdote, e diviso in due fazioni: quella conservatrice e nazionalista dei sadducèi, che tiravano più alle cose di questa terra che a quelle del cielo; e quella bigotta dei farisei, dei teologi che passavano il loro tempo a interpretare i sacri testi. Poi c’era anche una terza setta, estremista, quella degli esseni, che vivevano in un regime comunista, mettevano insieme i profitti del loro lavoro, si servivano di oggetti fatti con le loro mani, mangiavano a una stessa tavola, tacendo, e così poco, che campavano in genere oltre i cento anni, e il sabato non evacuavano nemmeno perché lo consideravano contrario alla Legge. Gli scribi invece, cui Gesù tanto spesso allude, non erano una setta; erano una professione e appartenevano per la maggior parte ai farisei. Rappresentavano un po’ i notai, i cancellieri, gl’interpreti delle Sacre Scritture, da cui ricavavano i precetti per regolare la vita della società. Non solo tutta la politica, ma anche tutta la letteratura e tutta la filosofia ebraiche erano d’intonazione profondamente religiosa (e lo sono rimaste). Il loro motivo dominante è l’attesa del Redentore che sarebbe venuto un giorno a riscattare il popolo dal Male, rappresentato nella fattispecie da Roma. E i più, seguendo Isaia, erano convinti che il Messia di questa Redenzione sarebbe stato un Figlio di Uomo, discendente dalla famiglia di

Pompei

di Indro Montanelli La catastrofe tellurica che il 24 agosto del 79 fece la disgrazia di Pompei ha costituito la sua fortuna postuma. Era una delle più insignificanti città d’Italia. Contava poco più di quindicimila abitanti, viveva soprattutto di agricoltura, e al suo nome non era legato nessun grande evento storico. Ma quel giorno il Vesuvio s’incappucciò d’una nuvolaglia nera da cui piovve un torrente di lava che in poche ore sommerse Pompei ed Ercolano. Plinio il Vecchio, che comandava la flotta alla fonda nel porto di Pozzuoli e che aveva, fra l’altro, la passione della geologia, accorse con le sue navi per vedere di che si trattava, eppoi per salvare gli abitanti che fuggivano a perdifiato verso il mare. Ma, accecato dal fumo e travolto nella ressa, cadde, e fu raggiunto e seppellito dalla lava. Circa duemila persone persero la vita in quella sciagura. Ma sotto il sudario di morte, la città si serbò intatta. E quando, circa due secoli fa, gli archeologi la disseppellirono con le loro escavatrici, quello che piano piano tornò alla luce fu il documento più istruttivo non soltanto dell’architettura, ma anche della vita di un piccolo centro di provincia italiano nel secolo d’oro dell’Impero. Amedeo Maiuri, che vi ha dedicato la vita, ha tratto da Pompei insegnamenti preziosi. Il centro del paese era il foro, cioè la piazza, che certamente in origine era stata il mercato dei cavoli per cui quella zona andava famosa, ma poi col tempo era diventata anche un teatro all’aperto sia per gli spettacoli drammatici che per i giuochi. Gli edifici che la circondavano erano quelli di pubblica utilità, a cominciare dai templi di Giove, di Apollo e di Venere, per finire al municipio e ai negozi. È chiaro che la vita si svolgeva lì, il dedalo di viuzze che s’intrecciavano tutt’intorno costituendo una specie di retrobottega gremita di negozietti e di botteghe artigiane, sonanti di martelli, di scuri, di seghe, di pialle, di lime e del confuso assordante vocio di bambini, donne, gatti, cani, venditori ambulanti, che ancora costituisce una caratteristica del nostro bello, ma non silenzioso paese, specie nel Sud. E siccome quelli che si conservano meglio, del costume di un popolo, sono i vizi, a Pompei possiamo misurare quanto sia vecchio, in Italia, anche quello d’imbrattare i muri e di servirsene come strumenti di propaganda delle nostre idee, dei nostri amori e dei nostri odi. Oggi lo facciamo coi manifesti, il gesso e il carbone. Allora lo si faceva coi «graffiti», cioè incidendo la pietra. Ma la differenza è soltanto tecnica: quanto al contenuto, è chiaro che gl’italiani hanno sempre pensato e detto e urlato le stesse cose. Tizio prometteva a Cornelia un amore più lungo della sua stessa vita, Caio invitava Sempronio ad andare a morire ammazzato, Giulio garantiva pace e prosperità a tutti se lo eleggevano questore, e i «Viva Maio!» si sprecavano all’indirizzo di un edile che aveva scritturato a proprie spese il gladiatore Paride, come oggi si scritturano gli «oriundi» nelle squadre di calcio, per dare spettacolo nell’anfiteatro dov’erano disponibili ventimila posti, cinquemila più di quelli richiesti dall’intera cittadinanza, che dovevano essere riservati, evidentemente, alla gente del contado. Le case erano comode e piuttosto lussuose. Non avevano quasi punto finestre e di rado il termosifone. Ma i soffitti sono di cemento, qualche volta a mosaico e i pavimenti di pietra. Solo i palazzi hanno la stanza da bagno, e qualcuno addirittura la piscina. Ma c’erano ben tre terme pubbliche con relativa palestra. Le cucine erano provviste di ogni sorta di utensili: padelle, pentole, girarrosti; e in una libreria privata furono rintracciati duemila volumi in greco e in latino. Del mobilio si sa poco perché, essendo quasi tutto di legno, si è disfatto. Ma sono rimasti calamai, penne, lampade di bronzo, e statue, tutte di derivazione greca, ma di alto stile e raffinata fattura. Tutto questo suggerisce l’idea d’una vita comoda e bene organizzata, quale dovette essere infatti quella delle città di provincia nei secoli felici dell’Impero. Certo, nessuna di esse poteva gareggiare con Roma, quanto a intensità, servizi pubblici, salotti e divertimenti. In compenso, chi vi abitava era sottratto ai pericoli delle persecuzioni, o per lo meno ne soffriva in misura molto minore, e il malcostume della decadenza vi giunse più tardi e attenuato dalla maggiore solidità delle buone tradizioni. Non per nulla Cesare, e più tardi Vespasiano, tentarono di colmare i vuoti dell’aristocrazia e del Senato romani elevandovi le famiglie di questa borghesia provinciale. E una delle ragioni per cui, caduta Roma, la civiltà romana resistè e corruppe i barbari assorbendoli è che non soltanto nell’Urbe, ma dovunque essi mettessero il piede nella penisola, vi trovarono città superiormente organizzate. Di esse, non faremo l’inventario. Ci limiteremo soltanto a dire che, al contrario di ciò che accade oggi, quelle meridionali primeggiavano sulle settentrionali perché, ancora prima di quella romana, avevano risentito della civiltà greca. Napoli era la più rinomata per i suoi templi, per le sue statue, per il suo cielo, per il suo mare, per la sottile furberia dei suoi abitanti e, come oggi, per la loro pigrizia. Da Roma ci venivano a passare l’inverno, e i suoi dintorni, Sorrento, Pozzuoli, Cuma, brulicavano di ville. Capri era già stata scoperta da un pezzo e Tiberio la «lanciò» facendone la sua abituale residenza. E Pozzuoli fu la più rinomata stazione termale dell’antichità per le sue acque sulfuree.     Un’altra regione che brulicava di città già stagionate era la Toscana, dove le avevano costruite gli etruschi. Le più importanti erano Chiusi, Arezzo, Volterra, Tarquinia e Perugia ch’era considerata parte di quella regione. Firenze che, appena neonata, si chiamava Florentia, era la meno cospicua e non prevedeva il suo destino. Più su, al di là degli Appennini, cominciavano le città-fortino, costruite soprattutto per ragioni militari, come piazzeforti degli eserciti impegnati nella lotta contro le riottose popolazioni galle. Tali furono Mantova, Cremona, Ferrara, Piacenza. Ancora più a Nord c’era il grosso borgo mercantile di Como, che considerava Mediolanum, cioè Milano, il suo quartiere povero.

Fu Nerone migliore di come la storia lo ha descritto?

di Indro Montanelli CLAUDIO E SENECA I pretoriani che, avendo ucciso Caligola, erano padroni della situazione e volevano restarlo, si guardarono intorno alla ricerca d’un successore di cui poter disporre a piacimento. E parve loro che il personaggio più indicato fosse lo zio del defunto, quel povero Claudio già cinquantenne, con le gambe inceppate dalla paralisi infantile e la lingua dalla balbuzie, e con l’aria stordita, che la notte dell’assassinio fu trovato nascosto dietro una colonna, a tremar di paura. Era figlio di Antonia e di Druso, figlio a sua volta di Druso Nerone. Ed era passato in mezzo alle tragedie della casa Claudia, protetto da una ben accreditata fama di mentecatto. Se era stata una commedia, la sua, bisogna dire ch’egli l’aveva recitata molto bene, sin da piccino, perché perfino sua madre lo chiamava un «aborto» e quando voleva dir male di qualcuno, lo definiva «più cretino del mio povero Claudio!». È difficile dire sino a che punto questo personaggio, rivelatosi poi un eccellente imperatore, fosse un idiota, o lo facesse per non pagare il dazio. Certo che, in questo modo, fu l’unico della famiglia a salvarsi. Trascinando le gambette sinistrate, sputacchiando, quando parlava, in faccia a tutti, alto, appesantito dalla trippa e col naso rosso di vino, aveva vissuto sino a quell’età senza dar ombra a nessuno, studiando e componendo storie, fra cui la sua autobiografia. Parlava il greco, la sapeva lunga di geometria e di medicina. E quando si presentò al Senato per farsi proclamare imperatore, disse: «Lo so che mi considerate un povero scemo. Ma non lo sono. Ho finto di esserlo. E per questo oggi son qui». Dopodiché però sciupò tutto, tenendo una conferenza sul modo di curare i morsi delle vipere. Claudio debuttò con una buona mancia ai pretoriani che lo avevano eletto, ma in cambio si fece consegnare da loro gli assassini di Caligola e li soppresse per instaurare, disse, il principio che gl’imperatori non si ammazzano. Poi cancellò con un colpo di penna tutte le leggi del suo predecessore e si diede a riordinare l’amministrazione, spiegandovi un senno e un equilibrio che nessuno sospettava in lui. Convinto che fra i senatori non ci fosse più nulla di buono, formò un ministero di tecnici, scegliendoli nella categoria dei liberti. E si diede a studiare e realizzare con loro opere pubbliche di grossa portata, divertendosi a fare di persona calcoli e progetti. Quello che più l’occupò fu il prosciugamento del lago Fucino. Impiegò trentamila sterratori e undici anni per scavare un canale e far defluire le acque. Quando tutto fu pronto, offrì ai romani, come ultimo spettacolo, prima del disseccamento, una battaglia navale fra due flotte di ventimila condannati a morte, che gli rivolsero il famoso grido: «Ave Cesare! I morituri ti salutano!», si colarono a picco gli uni contro gli altri, e affogarono. Il pubblico, che tappezzava le colline intorno, si divertì moltissimo. Tutti si misero a ridere quando nel 43 questo imperatore sbevazzone e dall’aria scimunita e gioconda partì alla testa del suo esercito per conquistare la Britannia. Non aveva mai fatto il soldato anche perché lo avrebbero riformato alla leva, e Roma era convinta che sarebbe scappato al primo scontro. Ma quando si sparse la notizia ch’egli era morto, il cordoglio fu grande e generale: i romani si erano sinceramente affezionati a quel loro imperatore che, con tutte le sue stravaganze, si era mostrato il migliore, o almeno il più umano, fra quelli succeduti ad Augusto. Invece Claudio non solo non era morto, ma aveva conquistato davvero la Britannia, e ora tornava portandosene dietro il re, Caractaco, che fu il primo, dei re vinti da Roma, ad essere graziato. Il merito di questa vittoria, certo, sarà stato, più che di Claudio, dei suoi generali. Ma i generali era lui che li nominava, e in queste scelte non prendeva granchi. Fu sotto di lui che si formò anche Vespasiano. Purtroppo questo brav’uomo aveva un debole: le donne. Era un pomicione incorreggibile. Aveva già avuto, e tradito, tre mogli, quando, quasi cinquantenne, sposò la quarta, Messalina, che aveva sedici anni. Messalina è passata alla storia come la più infame di tutte le regine, e forse non è vero. Forse fu soltanto la più scostumata. Siccome non era bella, quando qualche giovanotto le resisteva, gli faceva impartire da Claudio l’ordine di cedere, trasformando così l’amore in un gesto di patriottismo. Claudio si prestava purché Messalina gli lasciasse mano libera con le cameriere. Erano, in fondo, una coppia bene assortita, ma il guaio era che Claudio si era messo in testa di riformare il costume romano su basi di austerità, e una moglie di quella fatta non costituiva il migliore esempio. Un giorno, mentre egli era assente, essa sposò addirittura il suo amante di turno, Silio. I ministri ne informarono l’imperatore dicendogli che Silio voleva sostituirlo sul trono. Claudio tornò, lo fece uccidere, eppoi mandò due pretoriani a chiamare Messalina che si era nascosta nella casa materna. Timorosi di una vendetta, i pretoriani la pugnalarono nelle braccia di sua madre. Claudio ordinò loro di uccidere anche lui, se avesse accennato a risposarsi. Si risposò l’anno dopo, e la quinta moglie virtuosa fece rimpiangere la quarta svergognata. Agrippina, figlia di Agrippina e di Germanico, era sua nipote, aveva già avuto due mariti, e il primo di essi le aveva lasciato un figlioletto di nome Nerone, la cui carriera fu la sua unica passione. In lei riviveva Livia peggiorata. Coi suoi trent’anni, le fu facile mettere sotto la pantofola quel marito quasi sessantenne, infiacchito dagli strapazzi con le cameriere. Essa lo isolò dai suoi collaboratori, mise il suo amico Burro alla testa dei pretoriani, e instaurò un nuovo regno di terrore, di cui senatori e cavalieri fecero le spese. Le condanne capitali portavano una firma di Claudio che, dopo la morte di costui, si rivelò falsificata. Il poveruomo, sebbene rimbambito, parve accorgersi a un certo punto di quel che succedeva e voler porvi rimedio. Agrippina lo prevenne propinandogli un piatto di funghi avvelenati. Nerone, che aveva

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